Ieri abbiamo parlato di Liberazione, di libertà, abbiamo provato a spiegarla ai nostri bambini. Ma esattamente, noi oggi come stiamo? Come stiamo vivendo questo lockdown? Lo sapete che per spiegare a mio figlio cosa significhi la parola libertà gli ho dovuto far notare le privazioni di questo periodo? La sua maestra gli ha chiesto di descrivere cosa sia per lui la libertà e lui ha fatto i conti sulla sua pelle con la libertà che in questo periodo gli è stata tolta. E mi chiedo, ancora: abbiamo mai pensato a ciò che stiamo togliendo loro? Come stanno i nostri figli? I piccoli e più grandi studenti a cui è stato tolto tanto? Parliamo di pizzerie da asporto, passeggiate, bonus per imprenditori, autonomi, negozi e bar chiusi, ma loro, questi piccoli, come stanno? Come stanno i loro genitori? Come stiamo tutti? Quanto davvero profondamente ci sta cambiando, se davvero ci sta cambiando, questa situazione? E poi, davvero pensate che una volta finita questa emergenza ne usciremo diversi?
I bambini sono quelli meno colpiti dal virus, ma forse quelli più profondamente colpiti nell’animo. I bambini che si trovano i una condizione del tutto innaturale, che non possono correre liberi, giocare fuori casa, andare in bicicletta, organizzare partite di pallone e incontri al parco giochi. Bambini che si sono ritrovati, all’improvviso, senza avere la possibilità di far visita ai loro nonni, senza poter più partecipare alle lezioni di calcio e di danza. Bambini che, improvvisamente, hanno dovuto abbandonare i loro banchi di scuola, le loro maestre, i loro amici. Proviamo a pensare a quei bambini che dalla quinta elementare si troveranno in prima media, dalla terza media al primo anno di liceo, ragazzi che dall’ultimo anno di scuole superiori si ritroveranno in balìa delle loro aspettative di vita, al primo anno di Università, lontani dal loro paese, lontani dai loro punti di riferimento. O agli stessi bambini che non hanno fatto in tempo a salutare i loro compagni e maestri d’asilo per ritrovarsi, direttamente, catapultati della scuola dello studio e dei doveri. Perché mai un bambino, dopo anni di compagnia e studio con un gruppo di amici, deve ritrovarsi, tra qualche mese, in una classe, in una comunità, in una situazione completamente differente? Come si sentono quei bambini che si erano ripromessi di vedersi domani, di fare una gita scolastica, di fare chiacchiere tra i banchi durante la ricreazione al pensiero che non sarà più così? Cosa pensano i bambini di queste insegnanti che incontrano quotidianamente tramite il video del pc, su una piattaforma digitale, di questa didattica e di questi incontri virtuali che non hanno nulla del calore quotidiano in un’aula scolastica? Cosa pensano questi bambini che, all’improvviso, si sono ritrovati senza i loro compagni dopo cinque anni di studio, che non hanno potuto organizzare una festa di fine percorso scolastico, che non hanno potuto salutare i propri insegnanti, che non hanno provato il magone degli ultimi periodi, gli abbracci e le lacrime dell’ultimo giorno di scuola? Bambini, ragazzi, insegnanti, genitori che all’improvviso si sono trovati di fronte a ogni stabilità e a ogni incertezza.
Come l’incertezza e lo smarrimento di chi ha visto morire parenti, di chi non ha potuto assistere al loro funerale, di chi non ha potuto stringere la mano in ospedale a familiari in lotta per la vita o a persone che hanno tanto amato e che sono spirate senza poter avere accanto chi per una vita si è preso cura di loro. Pochi giorni fa, mi è stata segnalata l’intervista a una psicologa di Medici Senza Frontiere, Mirella Riccardi che, quando da poco era rientrata da una missione in Repubblica Democratica del Congo, è stata chiamata per raggiungere Lodi. E ho il piacere di riportarvi parte del suo pensiero.
“Ho incontrato lo smarrimento di chi si prende cura, il dolore di chi ha visto troppi pazienti morire senza la mano di chi li ama, l’abnegazione di chi dedica ogni energia in corsia, la stanchezza di chi combatte contro qualcosa che corre senza sosta a volte vanificando gli infiniti sforzi. Ho sentito la paura di chi deve tornare a casa dopo un lungo turno, lo sconforto di non poter prendere né dare il conforto di un abbraccio per proteggere dal contagio chi si ama: un doppio doloroso isolamento. Ho accolto la rabbia di chi ha visto colleghi ammalarsi e teme per sé stesso, la rabbia per l’impotenza dinanzi a questo sconosciuto. Ho visto occhi pieni di lacrime perché ci si sente addolorati, spaventati, persi. Ho incontrato il coraggio di chi dice di aver paura, di chi si ferma dinanzi a qualcosa di insostenibile, prende fiato, per poi ricominciare. Ho vissuto in corsia momenti di tenera calda ironia tra i colleghi e tra il personale e i loro pazienti. Ho condiviso sorrisi visibili solo dalle splendide rughe degli occhi. Ascoltare chi racconta la vita prima di questo ‘affare’, chi è arrabbiato per questa forzata solitudine, la voce di chi ha paura di non farcela e la voglia di tornare a vivere, la sofferenza di chi è sopravvissuto e sta per tornare a casa, sì, anche il rientro a casa si fa talvolta malinconico, perché resta la paura di ciò che è stato e la preoccupazione di contagiare ancora. C’è chi attende con angoscia e speranza l’esito del ‘bastoncino’, la sofferenza di chi sa che non sarà mai più come prima, la paura e il desiderio dell’avvenire. C’è chi si commuove perché sente il tempo del nostro dialogo una boccata di ossigeno”.
Giornalista