Nel 1619, a Point Comfort, una colonia inglese in Virginia, approdò la fregata White Lion con a bordo venti Negroes, uomini di origine africana destinati a essere venduti come lavoratori. Tre giorni dopo, arrivò anche la Treasurer con altri uomini. Due eventi che tradizionalmente vengono considerati come l’inizio dello schiavismo americano. Inizialmente erano considerati servi. La servitù era un sistema in cui la manodopera non percepiva salario, ma lavorava per un certo periodo di tempo per ripagare un debito. Finiti i termini concordati, si tornava liberi. Eppure, a un certo punto, la servitù a tempo si rivelò però poco conveniente per i proprietari delle grandi coltivazioni, e così, a partire dalla metà del Seicento, venne a poco a poco sostituita dal sistema prettamente schiavistico, ossia basato sul possesso del lavoratore. Già al momento della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, il 4 luglio 1776, le tredici colonie originarie sancirono la schiavitù attraverso specifici Slave Codes, e per legittimare la “proprietà privata” di esseri umani si era chiamata formalmente in causa la superiorità della razza bianca. Adottando la schiavitù negli USA si aggiunse l’ultimo tassello alla “tratta atlantica”, la più imponente migrazione forzata della storia, con oltre 11 milioni di africani deportati tra il XVI e il XIX secolo. La legislazione s’impegnò a esercitare un forte controllo sociale sui neri, impedendone per esempio la libera circolazione, l’aggregazione e, in alcuni casi, l’istruzione, ma questo non impedì agli schiavi di coalizzarsi contro i loro padroni, anche se ogni tentativo d’insurrezione fu puntualmente soffocato da episodi di sangue e punito con esecuzioni esemplari.
Il trattamento degli schiavi negli USA variava a seconda del periodo e della località. Generalmente si trattava di condizioni disumane, pessime, caratterizzate da brutalità dei padroni, degradazione. All’ordine del giorno frustate per insubordinazione, esecuzioni e stupri; si salvavano quei pochi schiavi specializzati in lavori di grande importanza come la pratica della medicina. Venivano trattati un po’ meglio gli schiavi in affitto, poiché non erano di diretta proprietà dei coltivatori. A loro veniva negata l’istruzione, per impedire l’emancipazione intellettuale che avrebbe potuto instillare negli schiavi l’idea di fuga o di ribellione. Le punizioni per gli schiavi insubordinati erano fisiche, come la fustigazione, bruciature, mutilazioni, marchiatura a fuoco, detenzione e impiccagione. Talvolta questi venivano puniti senza un motivo preciso, ma l’intento dei padroni era solo quello di confermare la loro posizione dominante. Gli schiavisti negli USA spesso abusavano sessualmente delle schiave, e le donne che opponevano resistenza erano solitamente uccise; l’abuso sessuale era considerato un’attività che ricalcava la proprietà di una persona. Per preservare la “razza pura” erano severamente vietati rapporti sessuali tra donne bianche e uomini neri, ma lo stesso divieto non era previsto per i rapporti tra uomini bianchi e donne nere.
All’inizio del XIX secolo, a neanche cento anni dalla nascita degli USA, al Sud si delineò un modello di vita rurale e conservatore basato sullo sfruttamento degli schiavi, mentre al Nord l’economia si orientò verso la produzione industriale, con la graduale abolizione della schiavitù. Le tensioni create da tale divario socio-economico sfociarono nel 1861 nella sanguinosa Guerra di Secessione Americana. Alla base vi fu proprio la volontà dei nordisti di imporre l’abolizionismo su tutti gli USA. Fu il 18 giugno 1862 che il Congresso degli Stati Uniti approvò per la prima volta la messa al bando dello schiavismo in tutti gli Stati della confederazione. Pochi mesi dopo ci fu il Proclama di Emancipazione, promulgato da Abramo Lincoln, che decretava la liberazione degli schiavi in tutti gli stati secessionisti. L’atto conclusivo si ebbe con l’approvazione del XIII emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, che abolì ufficialmente la schiavitù.
Giornalista