Era il 31 luglio 1919, 101 anni fa il giorno in cui nascque Primo Michele Levi, chimico, partigiano e scrittore, che con le sue parole ha cercato di trasmettere la sua toccante e individuale esperienza di vita come ebreo italiano e di internato del campo di concentramento di Auschwitz, nel quale arrivò nel febbraio 1944. Sin da giovane studente, dimostrò di avere una mente brillante, con una grande dose di immaginazione, doti che gli permisero di eccellere negli studi. Fu studente di Chimica all’Università di Torino, ma a casua delle leggi razziali del 1938 non riuscì a trovare un relatore per la sua tesi con molta facilità. Alla fine riuscì a laurearsi con lode, ma sul suo diploma era specificato “di razza ebraica”. Quando si trasferì a Milano cominciò a lavorare in una ditta di medicinali svizzera ed entrò in contatto con numerosi gruppi antifascisti, iniziando a fare parte del cladestino Partito d’Azione. Nel 1943 si unì a un nucleo partigiano che operava in Val d’Aosta e pochi mesi dopo venne arrestato dalla milizia fascista ad Amay. Quando fu sottoposto a interrogatorio decise di dichiararsi ebreo piuttosto che partigiano e per questo motivo fu mandato nel campo di Fossoli, in provincia di Modena.
Il 22 Febbraio 1944 venne trasferito ad Auschwitz, con un vagone merci, insieme ad altre 650 persone. Non aveva ancora 25 anni, e venne registrato con il numero 174517, per poi essere condotto al lager di Buna-Monowitz, conosciuto come Auschwitz III, nel quale rimase fino al giorno della liberazione del lager da parte dell’Armata Rossa sovietica il 27 Gennaio 1945. Fu uno dei pochi a partire, essere internati e a fare ritorno, e Levi stesso immaginò che questa “fortuna” fosse dovuta alla conoscenza di un tedesco elementare, imparato leggendo le pubblicazioni scientifiche, all’incontro con Lorenzo Perrone, un civile occupato come muratore che rischiando la propria vita riusciva a procurargli regolarmente qualcosa da mangiare e la sua selezione per un posto presso il laboratorio della Buna, fabbrica di proprietà della tedesca IG Farben dove producevano gomme sintetiche, in cui le mansioni erano meno faticose. Molto probabilmente fu aiutato anche dal fatto che nel gennaio 1945 si ammalò di scarlattina ed, essendo ricoverato, scampò alla marcia di evacuazione di Auschwitz. Tornato a Torino riallacciò i legami famigliari e conobbe la moglie Lucia Morpurgo.
Non fu affatto semplice convivere con il ricordo degli orrori subiti e vissuti, che certamente mai dimenticò, e questo gli creò la necessità di mettere su carta la sua terribile esperienza dando vita al romanzo Se questo è un uomo. Furono molti gli editori che rifiutarono il libro, tra cui Einaudi, e alla fine il testo venne pubblicato da una piccola casa editrice, De Silva. Tuttavia, non riuscì a vendere più di 1.500 copie e, dato questo insuccesso iniziale, abbandonò per un po’ di tempo il mondo della letteratura per dedicarsi alla professione di chimico. Riprese fiducia nelle sue capacità di scrittore, tradusse in tedesco il suo primo libro fino a che decise di intraprendere la scrittura di un libro sul suo tormentato viaggio di ritorno, che intitolò La tregua e che vinse la prima edizione del Premio Campiello, l’anno successivo. Nell’aprile del 1987 venne trovato morto alla base delle scale di casa, non si sa se per suicidio, a causa della depressione di cui soffriva, o per morte accidentale, causata dalle vertigini di cui soffriva. Le sue spoglie sono conservate nel campo israelitico del Cimitero Monumentale di Torino.
Giornalista