Castel San Vincenzo è un piccolissimo centro di origine medievale che non arriva a contare 500 abitanti, ai piedi delle Mainarde, alle falde occidentali del monte Vallone, nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, ai confini con Rocchetta al Volturno. Un territorio che sin dall’epoca passata è dominato da numerosi vigneti e oliveti, simbolo di una popolazione di carattere contadino e di una terra improntata sullo stampo rurale. Nel suo territorio ci si può imbattere nel bellissimo lago, un invaso artificiale realizzato sul finire degli anni Cinquanta per scopi idroelettrici, alimentato dalle acque provenienti dai torrenti della Montagna Spaccata, nei comuni di Alfedena e Barrea che, a loro volta, alimentano le centrali Enel di Pizzone, Rocchetta a Volturno e Colli a Volturno. Nulla importa se si tratta di un lago artificiale: guardarlo dà un senso di pace e armonia, e il paesaggio ben comprende tale invaso, armonizzandolo in tutto il contesto che comprende montagne e boschi. Era proprio a Castel San Vincenzo che sorgeva l’antico monastero benedettino di San Vincenzo al Volturno, uno dei più importanti del Medioevo. La leggenda narra che l’abbazia sia stata visitata da Carlo Magno e che essa fu al centro di uno scontro aspro tra monaci longobardi fedeli al proprio duca e monaci favorevoli invece ai franchi, finché fu lo stesso Carlo Magno a far prevalere e a favorire questi ultimi che provvidero a potenziare il cenobio, provvedendo alla costruzione di una grande chiesa. Essa, nel susseguirsi dei tempi, ha dato interessanti testimonianze della cultura e della fede dell’intera valle. Il cantiere di scavo archeologico abbaziale è condotta dall’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, con il sostegno del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e in collaborazione con la Soprintendenza ABAP ed il Polo Museale del Molise. Grazie all’imperterrito lavoro degli archeologi si è avuta testimonianza che non si trattasse solo di un monastero, ma che fosse anche un vero quartiere produttivo, nel quale venivano conservati forni per vetri, laterizi e metalli. Il sito archeologico da più di vent’anni rappresenta un fiore all’occhiello per studiosi e ricercatori dell’Università Suor Orsola Benincasa ed è da considerarsi come luogo unico in Europa per la conoscenza del patrimonio storico-artistico altomedievale.
Le origini del monastero di San Vincenzo al Volturno si possono ritrovare del famoso Chronicon Vulturnense, un codice miniato in scrittura beneventana, redatto intorno al 1130 dal monaco Giovanni che intese redigere la cronaca per riordinare le memorie dell’antico cenobio benedettino in un momento molto particolare, durante il quale il patrimonio monastico era minacciato dalla presenza dei Normanni. Il Chronicon Vulturnense è oggi conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, e grazie a esso è possibile ricavare tantissime informazioni inerenti allo studio del monastero di San Vincenzo al Volturno. Il monastero fu fondato da tre nobili beneventani, Paldone, Tasone e Tatone, conosciuti come Paldo, Taso e Tato, che desideravano chiudersi in una vita fatta di meditazione e contemplazione, e per tal motivo si recarono presso l’Abbazia di Farfa, in provincia di Rieti, dove l’abate Tommaso di Morienna aveva suggerito loro di fondare un cenobio lungo le rive del Volturno. Progetto sostenuto dalla chiesa di Roma e dal duca di Benevento. Per il papato questo significava acquisire un certo spessore all’interno delle dinamiche geopolitiche della zona, mentre il duca di Benevento desiderava incrementare il prestigio proprio e dell’intero ducato che già ospitava al suo interno l’autorevole complesso cassinese. I due insediamenti benedettini si trasformarono, in seguito, nei centri religiosi più attivi, prosperosi e cruciali di tutto l’Alto Medioevo. In ogni caso, in quel luogo Paldo, Taso e Tato trovarono già un oratorio dedicato a San Vincenzo, fondato dall’Imperatore Costantino, in viaggio da Roma verso Bisanzio.
L’area a ridosso di Castel San Vincenzo era stata, in passato, interessata da un insediamento romano, caratteristico per la chiesa presente affiancata da un’area funeraria. Nel corso del IX secolo, gli abati Giosuè, Talarico ed Epifanio trasformarono il cenobio in una vera e propria città monastica, con grandi progetti che fecero arrivare il monastero alla capienza di circa 350 monaci, comprendendo ben dieci chiese e possedendo terre in gran parte dell’Italia centro-meridionale. Nella seconda metà del IX secolo, invece, tre eventi segnarono negativamente le sorti del monastero: il terremoto dell’848 che danneggiò gravemente alcuni edifici dell’abbazia, la minaccia dell’860 da parte dell’emiro di Bari, Sawdan, che si fermò solo dopo aver ricevuto un tributo di 3000 monete d’oro e l’evento dell’881 in cui, un nuovo gruppo di Arabi, al servizio del duca-vescovo di Napoli Atanasio II, attaccò il complesso monastico saccheggiandolo e incendiandolo. Alla fine di questa drammatica esperienza, alcuni monaci superstiti fuggirono a Capua, mentre quelli meno fortunati vennero portati via prigionieri dagli assalitori. Alcuni di quelli rifugiatisi a Capua tornarono a San Vincenzo per tentare di ricostruire il cenobio, progetto che vide concrete fattezze alla fine del X secolo grazie anche al sostegno, politico ed economico, degli imperatori tedeschi Ottone II e Ottone III. Verso la fine dell’XI secolo i monaci, che vedevano continue insurrezioni da parte dei Normanni, decisero di trasferire la comunità cenobitica lungo la riva destra del Volturno, in una posizione diversa, più sicura e fortificabile. Fu qui che cominciò il declino del monastero, con la diminuzone dei componenti della comunità, finché il monastero stesso, nel 1699, passò sotto la giurisdizione dell’Abbazia di Montecassino.
La basilica di San Vincenzo Maggiore per bellezza e dimensioni era certamente un unicum in tutto il meridione d’Italia. Comprendeva la chiesa, originariamente dedicata alla Vergine, delle officine che si addossavano sulle mura e la Cappella di Santa Restituta. La cripta della basilica, parzialmente sotterranea, ha un corridoio ricoperto da una volta a botte e termina in una camera nella quale erano collocate le reliquie di San Vincenzo, forse in una grande urna, forse all’interno di un sarcofago. Era molto probabilmente decorata con affreschi. La Cappella di Santa Restituta risale all’ultimo quarto dell’XI secolo, ed è un edificio a tre navate con tre absidi, di pianta quasi quadrata. La navata centrale è molto larga, quasi quattro metri ed è separata dalle navate laterali da quattro coppie di colonne. Fu eretta a memoria del monastero quando si avviarono i lavori per la sua demolizione e riedificazione sulla riva destra del fiume Volturno. La basilica fu consacrata nell’808, con un impianto a tre navate, ognuna delle quali presenta la propria abside. Le pareti della basilica molto probabilmente, in origine, erano interamente affrescate. Il complesso detto di San Vincenzo Minore, invece, comprende differenti ambienti, ma la Cripta di Epifanio è certamente quello più importante e interessante. Essa fu realizzata insieme alla ristrutturazione della chiesa: si tratta di una struttura con pianta a croce greca, coperta da una volta a botte, decorata da una serie di affreschi che ancor oggi rappresentano uno degli esempi più importanti per la pittura medievale a livello europeo, che iconograficamente si presentano come una meditazione sulla figura di Gesù, figlio di Dio, e sul significato della sua venuta tra gli uomini, come molte altre scene che ne rappresentano la vita. Gli affreschi sono un esempio del movimento pittorico longobardo beneventano, opera di artisti anonimi legati alla Scuola di miniatura beneventana, realizzati nel secondo quarto del IX secolo. Infine, vi è il complesso di San Vincenzo Nuovo, detto anche Abbazia Nuova, risalente agli inizi del XII secolo, la cui basilica venne consacrata da papa Pasquale II nel 1115. Una struttura modificata dai vari interventi di ristrutturazione e di recupero, ma che in origine doveva presentarsi come un edificio a tre navate divise da due file di dieci colonne.
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Giornalista