Quando vivevano in Scandinavia, i longobardi si autoappellavano Winili, il cui significato dovrebbe essere quello di cani-guerrieri, e non a caso essi stessi portavano grande adorazione alla dea-cagna Frigg/Frea. L’amore per la dea era spiegato anche dall’organizzazione matriarcale della comunità, la cui organizzazione era non esclusivamente millitare. Secondo la leggenda, i winils emigrano dalla Scania sotto la guida di due giovani condottieri, Ibor e Aio, i quali, non essendo dotati di speciali poteri “spesso ricorrevano alla loro madre Gambara per risolvere le loro difficoltà”, come raccontato da Paolo Diacono. Questo ci lascia immaginare che Gambara rappresenti una sorta di sacerdotessa, una guida spirituale, una sciamana che aveva la possibilità di interpellare gli dei, un porto sicuro per chi si perdeva sotto la sfera spirituale e religiosa.
Il termine Langobardia minor indica le regioni dell’Italia meridionale controllate dai Longobardi, in antitesi alla definizione di Langobardia maior o Longobardia megàle con cui gli scrittori bizantini del XII secolo si riferivano al più vasto regno longobardo con capitale Pavia. Il Ducato di Benevento, comprendente tutti i territori controllati dai Longobardi meridionali, presentò sin dai primi anni di vita una spiccata autonomia mantenendola dopo il 774, data della conquista franca del Regnum Langobardorum. Oggi ci soffermiamo su costumi e scelte di vita quotidiana del periodo altomedievale, del quale non ci sono molte fonti iconografiche e le notizie in nostro possesso si basano su scarsissimi documenti e fonti. In questo periodo regnava ancora la cultura romana, quella moda e quella forma mentis che difficilmente venivano messe da parte. Erano sempre e comunque considerate delle fonti ispiratrici, e anche i longobardi potevano ammirarne ed esaltarne le meraviglie architettoniche, la grandiosità e la magnificenza strutturale di palazzi e tombe. Le figure rappresentate sulle pareti di questi elementi architettonici indossavano lunghe tuniche, modello ispirativo per molti popoli che si susseguirono nei secoli successivi. C’è da dire che certamente la tunica era il modello di abito più diffuso, sia per le donne che per gli uomini, e anche i longobardi ripresero questo elemento nel loro stile quotidiano, ovviamente tutto realizzato a livello artigianale. Le donne ricorrevano a modelli con maniche lunghe che arrivavano fino ai piedi, coprendoli, spesso con uno strascico, e se vivevano in condizioni più agiate, queste venivano abbellite dalla sovrapposizione di vesti più sfarzose e preziose, spesso adornate da pietre e gemme. Queste tuniche venivano strette in vita da cinture, che per la maggior parte delle volte erano in cuoio, alle quali appendevano i diversi utensili da lavoro e oggetti della loro vita quotidiana, o accessori come borsette. Sempre le donne completavano il loro vestiario con ghirlande, mantelline e soprattutto scialli, che erano pezzi di stoffa che le principesse longobarde indossavano per manifestare il loro rango sociale.
Gli uomini, invece, indossavano delle tuniche più corte, spesso fino al ginocchio, con una robusta cintura in cuoio, che spesso manifestava il peso sociale e la ricchezza di chi la indossava. Utilizzavano mantelli che chiudevano con fibule, una delle caratteristiche del popolo longobardo, ma quelli che si stabilirono in Italia predilissero stoffe più leggere: i ricchi prediligevano l’elegante e signorile lino, ma anche la canapa non veniva disdegnata. Parliamo di un popolo prevalentemente guerriero, tanto che l’elemento più importante del vestiario e degli accessori maschili erano certamente armi e spade, scudi e lance. Circa le calzature, Diacono racconta che erano “aperte fino quasi all’estremità dell’alluce e assicurate da lacci intrecciati“. Sotto alla tunica indossavano pesanti brache che li proteggevano dal freddo, e parastinchi in panno pesante che li difendevano sia da polvere, sia da sporcizia. Tutte le loro vesti erano decorate da colori opachi per i poveri e forti per i ricchi, dato che le tinte più policrome erano simbolo di ricchezza, privilegio dei nobili. Ovviamente, i colori del tempo erano ricavati da elementi naturali, come il giallo dallo zafferano, il viola dai mirtilli, il nero dal castagno. Ciò quando non si dovevano ricavare colori dalla mescolanza di due tonalità: in quel caso veniva utilizzata come aggrappante le immersioni in tini che fissavano sui tessuti i pigmenti del colore, per ottenere una colorazione di alta qualità, che potesse durare a lungo. Come le tuniche, anche le cinture di cuoio venivano realizzate a mano, da un artigiano specializzato in cinture in cuoio per nobili arimanni e uno che produceva le cinture per il popolo più umile. Le scarpe stesse erano riproduzioni artigianali.
L’oreficeria era molto fine ma al contempo maestosa. L’oro riluceva in tutto il suo splendore, in raffinate immagini e certosini dettagli. Fibule a S, in tutta Italia, ma nelle più svariare forme nel Meridione, nella Langobardia Minor, in quella Benevento signorile e nobile. Alcuni degli elementi più significativi non sono esposti a Benevento, nel cittadino Museo del Sannio, anche se spesso raccolti nelle vaste necropoli sannite. Particolare bellezza e importanza sono certamente la Fibula di Benevento e l’Anello- sigillo aureo. La Fibula è datata VII secolo, rinvenuta nel 1889 e acquistata poco dopo ad Amalfi da Sir Arthur Evans, che la donò nel 1909 all’Ashmolean Museum di Oxford, dove è attualmente esposta. Un elemento sopraffine, dal gusto davvero raffinato, proveniente da una necropoli longobarda beneventana. La si attribuisce a qualche duca di Benevento. Ha tre pendagli con gemme a goccia che, in ambito bizantino, venivano riservati esclusivamente alle figure imperiali. Evidentemente, il duca beneventano voleva imitare un imperatore. È un oggetto con delle notevoli filigrane e decorazioni a spiga. Al centro, un cammeo in onice che raffigura un guerriero, oppure Minerva, secondo altre ipotesi, del quale non si ha certezza riguardo alla sua datazione: si tratta di un elemento coetaneo della fibula o di un riutilizzo di età romana? L’Anello-sigillo aureo, recante l’iscrizione MAVRICI, fu rinvenuto a Benevento nel 1869 e, pervenuto sul mercato antiquario di Roma, confluendo nel 1897 nelle collezioni del suddetto Ashmolean Museum di Oxford. Si tratta di un gioiello dall’indiscusso valore economico, sociale e politico, che molto probabilmente apparteneva a una persona di rango molto elevato, il quale doveva essere un referendario del Duca o addirittura del Re di Pavia. Oggi le ricerche si limitano a definire in uno sconosciuto Auto il proprietario dell’anello, nome che però non è leggibile quando l’anello viene usato, visto che la scritta Auto, da leggersi sul gioiello in maniera discontinua, andando a sigillare con la cera, sparisce e viene letta al contrario.
Giornalista