È certamente la festa più dolce che ci sia, e non è un modo di dire. Caramelle, bastoncini di zucchero e cioccolatini piovono dalle canne fumarie dei più piccini, ricordandoci che un nuovo anno scolastico e lavorativo stanno ufficialmente iniziando. La parola befana è una corruzione lessicale di epifania (dal greco ἐπιφάνεια, epifàneia) e rappresenta una figura folkloristica legata alle festività natalizie, una donna molto anziana che vola su una logora scopa e che, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio porta dolci e caramelle ai bimbi del mondo. Secondo la tradizione, la prima Befana della storia fu la ninfa Egeria, consigliera di Numa Pompilio, il secondo dei sette re di Roma. Alle calende di gennaio, verso la fine di dicembre, il re aveva l’abitudine di appendere una calza nella grotta dove viveva la dea, vicino alle Terme di Caracalla e la mattina la trovava piena non di doni, ma di buoni consigli. Nella religione degli antichi Romani vi era anche Strenia, legata al culto della salute: il primo giorno dell’anno i Romani si scambiavano doni per onorare la dea e per gli auguri di un buono e prospero anno. È proprio la dea Strenia a dare il nome alla strenna! Un’altra tradizione legata agli antichi Romani era quella della dea Abundia: dodici giorni dopo il 25 dicembre, la festa romana del Sol Invictus, si festeggiava la dea dell’abbondanza, portatrice di fortuna e prosperità per il nuovo anno. Alcune tracce dei miti pagani sopravvissero anche all’arrivo del Cristianesimo, fino a che non fu creata una nuova figura che contava le influenze di ambedue le tradizioni. Originariamente, la Befana era simbolo dell’anno appena passato, un anno ormai vecchio proprio come lei e i doni che portava erano dei simboli di buon auspicio per l’anno che sarebbe iniziato. La leggenda racconta che i Re Magi diretti a Betlemme si fermarono a bussare alla porta di un’anziana signora per chiedere indicazioni sulla strada da percorrere. Ottenute le informazioni dalla donna, i Re Magi la ringraziarono e la invitarono a seguirli per rendere con loro omaggio a Gesù. L’anziana rifiutò e tornò in casa ma, non appena i tre se ne furono andati, si convinse di aver commesso un errore: così uscì di casa e si mise in cammino in cerca dei re. Non riuscendo a trovarli, bussò a ogni casa, lasciando a tutti i bambini dei regali nella speranza che qualcuno di loro fosse proprio Gesù Bambino. Ed è così che da quel giorno la vecchietta continua a percorrere le vie del mondo, distribuendo dolci e doni ai bambini buoni e carbone ai più monelli.
Il Molise è la terra delle tradizione legate al fuoco. Quei fuochi che richiamano la rinascita, la vita, il Sol Invictus, che ricorrono nelle grandi tradizioni di Natale, della Vigilia come, ad esempio, quelli di Agnone, con le sue ‘ndocce, e quello di Oratino, con la sua faglia. Già in passato, in questa piccola e affascinante terra si accendevano fuochi per riscaldare Gesù Bambino, fuochi intorno ai quali si riunivano i giovani dei piccoli paesi per accendere i ‘rrutelle, le rotelle che venivano fatte rotolare lungo i pendii delle montagne oppure venivano gettate nelle acque dei laghetti o dei fiumi vicini. Erano queste le occasioni più adatte in cui venivano pubblicamente annunciati i fidanzamenti, intonate canzoni augurali e cantiidi questua, si offrivano e si ricevevano doni, si poneva fine a questioni o dispute pendenti con lo scambio di gesti di pace. In Molise, inoltre, vi era la credenza che se le ragazze nubili avessero sognato un ragazzo durante la notte dell’epifania, questi sarebbe diventato il loro sposo. Ecco spiegato il motivo per cui, prima di andare a dormire, le nubili facevano una preghiera di buon auspicio: “Pasqua Bbefania, Pasqua buffate, manneme ‘nsuonne quille ca Die m’ha destinate“.
Un’altra caratteristica legata all’Epifania molisana è quella della Pasquetta, un canto di auguri e di questua in uso in diverse località della regione la notte della vigilia dell’Epifania. Sappiamo che la Pasqua di Resurrezione è la maggiore festa della cristianità; ho tenuto a chiamarla di Resurrezione per contrapporla alle altre Pasque: la Pasqua di Natale o di Natività, la Pasqua Fiorita, ossia la Domenica delle Palme, la Pasquetta o Pasquarella, il Lunedì in Albis, la Pasqua delle Rose, o rosata, ossia la Pentecoste, la Pasqua del Corpo di Cristo o Corpus Domini, la Pasqua dei Santi, che cade il 1 novembre. E non dimentichiamo la Pasqua dell’Epifania: “N Pasqua Epifania tutte i feste pigliene vie”. È probabilmente dall’Italia centrale che arriva la tradizionale Pasquetta, il canto augurale e di questua di origine laica, simile alla carnevalata, una vera befanata che vede come protaginisti la Befana, suo marito il Befano, il conte del Buonumore e altri personaggi minori. Un canto augurale, dunque, che entra nei canti delle questue, come le maitunate della notte di San Silvestro, in cui i cantori augurano la buona Epifania, anzi la buona Pasqua, da vedersi come sinonimo di festa, felicità, fortuna. In alcune strofe del canto, i cantori affidano il compito di chiedere doni ai padroni delle case in cui bussano la porta e si esibiscono, per lo più cibo e bevande, ai padroni di casa. Uno dei canti più noti è quello registrato a Campobasso nella fine dell’Ottocento, in cui i cantori, per chiedere da bere alla padrona di casa, si esibirono in interminabili doppisensi: “E tu patrona tu, vattelo a piglia… E tu patrona tu, vattelo a piglia… E tu patrona tu, vattelo a piglia… lu vine buone. E se nen tiè i bicchieri, dacce la buttiglia! E se nen tiè buttiglia, dacce lu vecale! E se nen tiè vecale, dacce lu varjle! E se nen tiè varjle, dacce la votte! E se nen tiè la votte, vatt’a fa’ fotte!”
La Pasquetta molisana è un appuntamento tradizionale molto recente, attestata per la prima volta alla metà del Novecento. Quella di Toro, un piccolo borgo in provincia di Campobasso, è tra le più moderne e certamente tra le più suggestive. in cui cori maschili o misti risuonano durante la vigilia dell’Epifania, in piazza del Piano e davanti alle chiese del paese, quindi davanti alle case di amici o parenti. Si tratta di dieci quartine di ottonari a rima baciata, in lingua italiana: le prime nove narrano la visita dei Re Magi a Gesù Bambino, la decima augura la buona Pasqua ai padroni di casa e agli astanti, ma non va oltre gli auguri, astenendosi da ogni tipo di richiesta, ossia di questua. Una narrazione che si snoda su una melodia cantata da due voci, dello stesso tono, dopo una introduzione realizzata da uno strumento solista, come la fisarmonica, che non manca mai. Ma nemmeno, nella strutturazione dell’orchestrina, mancano mai l’organetto, la chitarra, u bufù, ‘a streculatóre, l’acciarino. Un rito che normalmente, in passato, non andava più in là della mezzanotte e che vedeva il suo epilogo con un abbondante banchetto offerto dai padroni delle case ospitanti. Da qualche anno si va avanti a cantare a notte inoltrata, fino al mattino del 6 gennaio, quando il canto viene ripetuto per l’ultima volta durante la prima messa nella chiesa del convento, assumendo così una connotazione religiosa, o ancor meglio liturgica, caratterizzandola rispetto a quella tipica molisana.
In copertina: la Pasquetta di Toro del 2016, foto di Anna Spina
Giornalista