Era l’11 settembre 1973, quando il presidente cileno Salvator Allende, assediato dall’esercito guidato dal generale Augusto Pinochet nel suo ufficio al palazzo della Moneda a Santiago, si tolse la vita, dopo aver parlato per un’ultima volta, tramite un discorso via radio, ai connazionali pronunciando le celebri parole: “Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e ho la certezza che il mio sacrificio non sarà vano, ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una lezione morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento”. Il discorso venne trasmesso da Radio Magallanes, l’emittente del Partito Comunista cileno che verrà distrutta subito dopo dai golpisti. Sulla sua morte la versione ufficiale parla di suicidio, ma un’altra versione dice che sarebbe stato lo stesso Pinochet a sparargli un colpo. Un golpe, il colpo di stato che divenne cruciale non solo nella storia della America Latina, ma del mondo intero.
Il bombardamento della Moneda, il palazzo presidenziale a Santiago del Cile, la fine tragica di Allende e l’entrata in scena del generale Augusto Pinochet aprirono una fase storica drammatica per una parte della popolazione cilena. In quel periodo, il Cile era caduto in un profondo caos con l’inflazione alle stelle e la carenza di materie prime, e i tanti, tantissimi e continui scioperi. Pinochet prese il potere e instaurò una violenta dittatura che durò fino al 1990. Il Cile, negli anni di Allende, subì anche il boicottaggio da parte degli Usa. Nel 1998, il giudice spagnolo Baltasar Garzón emise contro Pinochet un mandato di cattura internazionale per la scomparsa di cittadini spagnoli durante la dittatura, e lui venne accusato di genocidio, terrorismo e tortura. Fu arrestato a Londra dove si trovava per farsi curare, ma non fu mai stato condannato. Morì d’infarto a 91 anni.
Giornalista