Alla vigilia della cerimonia di riconsegna dei due putti trafugati il 13 dicembre 1989 dall’altare barocco della chiesa di San Sebastiano di Guardia Sanframondi, non posso non raccontare di questo piccolo e meraviglioso scrigno, che una volta aperto ci mostra le sue meraviglie, la sua lucentezza, la sua maestosità. Uno scrigno che a primo acchito può sembrare anonimo, una struttura semplice sulla via che a Guardia Sanframondi viene percorsa tutti i giorni, talmente discreta, da non dare affatto nell’occhio. Un portale in pietra arenaria, dal tipico aspetto rinascimentale, accoglie i suoi avventori. Una chiesetta a unica navata, dall’altare maggiore maestoso e luminoso come i marmi pregiati di cui si fregia, che da solo è considerato una vera e propria opera d’arte. Una chiesetta che raccoglie dentro di sé l’imponenza e l’alta responsabilità di un inebriamento dell’animo puro e catartico. Una chiesa il cui primo impianto, nato come semplice cappella, sorse nel 1515, come luogo di preghiera dei membri della Confraternita di Santa Maria della Pietà. I confratelli l’abbandonarono nel 1535, quando i conciatori di pelle se ne appropriarono. In quel periodo, Guardia era rinomata nell’ambito della concia delle pelli, un grande fiore all’occhiello del borgo del Sannio. Un’attività che nel tempo divenne estremamente importante, raggiunse una imponenza impressionante, addirittura fuori i confini del Regno, arrivando a raggiungere i territori internazionali, persino l’Oriente asiatico. Fino a lì venivano esportati i prodotti degli artigiani guardiesi. Un fenomeno talmente imponente che venne definito “Guardia delle sòle”. Addirittura, Guardia che è un borgo di stampo agricolo, in quel periodo vide i suoi abitanti abbandonare la consolidata attività rurale per dedicarsi alla più redditizia attività commerciale della conciatura.
Il monumento architettonico della chiesa di San Sebastiano, come tanti altri, subì la dura condanna del terremoto del 5 giugno 1688, quel grande boato che rese in frantumi la maggior parte dei borghi sanniti, e che tenne sul peso della coscienza feriti e moribondi, con polveri innalzate in cielo e un grande, devastante, assordante silenzio. Il terremoto che rase al suolo la stessa Guardia. Ma Guardia, com’è nel suo carattere ancora oggi, non si arrese e pian piano si risollevò. E lo stesso fecero i conciatori di pelle che riuscirono a incastrare di nuovo tutti i pezzi del puzzle, pezzi da creare e forgiare da capo, senza accontentarsi di rimettere in sesto, nuovamente, chiesa e campanile: vollero agire in grande e per questo chiamarono nel loro paese due artisti eccellenti che fecero di questa chiesa una vera e propria eccellenza sannita. Dapprima, nel XV secolo, una delle tante comunità di ebrei soggetti alla diaspora, che girovagavano nel mondo, si stanziò proprio a Guardia Sanframondi, e fu sistemata all’esterno del centro abitato, nella zona della Portella, che divenne vero e proprio ghetto della città. E furono proprio questi facoltosi e motivati uomini a dare vita all’attività di concia delle pelli, di cui si vantavano essere maestri, i cui procedimenti e lavorazione erano molto antichi e naturali. La pelle organica non doveva marcire, doveva essere privata dalla naturale possibilità di andare in stato di decomposizione, proprio perché in seguito veniva lavorata per essere utilizzata a guisa di indumenti. Gli animali venivano dapprima scuoiati, e dalla loro carne bisognava togliere ogni residuo di grasso. Si procedeva al processo di salatura, all’essiccamento e dopo tutto questo ciclo lavorativo si procedeva alla vera e propria attività di conciatura. All’epoca, questo procedimento avveniva in vasche specifiche, piene di acqua e calce: una miscela che permetteva la perdita dei peli rimasti. La concia finale, per mezzo di tannini del legno, portava alla fase ultima della lavorazione, in cui la pelle si trasformava finalmente in cuoio, che a volte veniva conservato nella colorazione naturale, altre volte sottoposto a tinteggiatura, e poi ingrassato per poter essere utilizzato. Il grasso residuo del processo di scarnatura, la sottrazione dei grassi dalla pelle, veniva distribuito in beneficenza alle persone più povere, quale fonte di sostentamento, ma veniva utilizzato anche come base per la produzione di saponi vegetali e cosmetici naturali, mentre i peli sottratti dalle pelli venivano adoperati per usi diversi, come l’imbottitura di cuscini, coperte, o anche guanti e indumenti che proteggessero dal freddo. A proposito del processo di scarnatura, il vico che oggi conosciamo come Vico dei Conciatori veniva chiamato la carnìcchia, proprio per la tipica lavorazione ivi effettuata.
L’attività divenne davvero fiorente tanto che furono oltre cento le aziende che si occupavano della concia di pelli. Operai che si erano ormai costituiti in una propria Corporazione, che avevano fondato una propria Banca, affinché vi fosse sostegno economico verso chi vi si affiliava e grazie alla quale riuscirono a costruirsi una propria chiesa, su impianto rinascimentale del 1515, dapprima attorno al ‘600, quando venne abbellita e restaurata un’antica tavola raffigurante San Sebastiano, che si trovava sull’altare maggiore, e in seguito dopo il terremoto di fine Seicento, quando i conciatori, davvero ricchi e potenti, chiamarono illustri artisti a impreziosire l’edificio sacro. La pala dell’altare maggiore raffigura dunque il santo protettore dei conciatori, trafitto dalle frecce dei suoi stessi compagni pagani, in tipico stile manieristico. I due artisti, dai nomi altisonanti, che hanno dato lustro all’edificio, chiamati dagli stessi conciatori per impreziosire l’edificio, sono i due artisti che hanno scritto la storia dell’arte partenopea nel mondo. Si tratta di Domenico Antonio Vaccaro, prestigioso, se non il più autorevole artista settecentesco napoletano, al quale si devono sculture e preziosi stucchi, che fu chiamato dai conciatori proprio per dare pregio alla struttura con i suoi preziosi elementi decorativi, forgiati da quelle due sapienti mani maestre. Pittore, scultore e architetto, personalità di punta per la prima metà del Settecento napoletano, egli praticò le tre arti a un alto livello tecnico – formale, tanto che i suoi contemporanei gli riconobbero “la potenza del suo inventare, la franchezza delle bizarrie, la libertà del genio”. Paolo De Matteis, invece, fu uno dei più grandi discepoli di Luca Giordano che tanta magnificenza diede anche agli interni della Reggia di Versailles. Fu proprio il suo maestro Giordano a influire visibilmente tutta la sua produzione, poi, intorno al 1682, si recò a Roma dove venne presentato da Gasparo de Haro y Guzmán, marchese del Carpio, al pittore Giovanni Maria Morandi, che lo introdusse all’Accademia di San Luca. Fu a Roma che “si diede ad osservare, e disegnare l’opere de’ migliori maestri della Romana Scuola” entrando, con ogni probabilità, in contatto con il nutrito gruppo di artisti francesi presenti in città. A Napoli intanto la cultura artistica oscillava tra il barocco e il vero e proprio manierismo. Fu il De Matteis ad affrescare la volta e le tele della chiesa-gioiello di San Sebastiano, rappresentazioni di un’arte magnificente che non sfugge all’occhio critico dell’amante del bello vero. E non a torto, questa meravigliosa chiesetta viene appellata “La piccola Cappella Sistina della Valle Telesina”.
La volta è affrescata magistralmente e suddivisa in riquadri, dalle ricche cornici di impronta rococò napoletano. Al centro di essa, proprio per devozione dei committenti, troviamo affrescata la “Vergine Assunta in cielo”. Meravigliose tele di Paolo De Matteis le troviamo nelle Sale Museali del palazzo municipale di Guardia Sanframondi, in una sala dedicata appositamente all’illustre artista, curato nel suo allestimento, con assoluta dedizione, dal funzionario della Sovrintendenza Ferdinando Creta. Non solo: maestri argentieri diedero il proprio prezioso contributo con delle lavorazioni di pregiata fattura. Basti pensare al celebre busto in argento di San Sebastiano, alto oltre un metro, rubato in seguito, tra le altre opere ivi presenti, dal Museo degli Argenti. Nell’Ottocento l’attività dei conciatori andò a eclissarsi pian piano, certamente anche a causa dell’industrializzazione e della meccanizzazione della lavorazione delle pelli. Fu in quel periodo che, su progetto del laurentino Ciriaco Parenti, cominciò un piano di lavoro e rivalorizzazione dell’area delle sòle, che prevedeva la realizzazione della monumentale Fontana del Popolo. Tra i nomi illustri che vanno ad accompagnare la magnificenza della chiesa, non possiamo certamente dimenticare quello di Alfonso Sellaroli, guardiese e studioso dell’Istituto Galilei di Firenze. Quando tornò nella cittadina dei Sanframondo, nel 1875 vi fondò una Fabbrica Nazionale di orologi monumentali da torre, uno installato proprio sul campanile della chiesa di San Sebastiano, mentre l’altro è visibile su quello della chiesa Ave Gratia Plena. E proprio per la suddetta Fontana del Popolo costruì un orologio e un calendario idraulico, in funzione fino al 1943, anno in cui fu trafugato dai tedeschi.
Giornalista