San Michele Arcangelo è considerato il protettore dei protettori, l’arcangelo guerriero, avversario di Satana e di tutti quegli angeli che si sono rivoltati contro Dio, guidando l’esercito celeste nella battaglia contro gli angeli ribelli di Lucifero. È l’angelo che ci è vicino in ogni battaglia quotidiana, il protettore del male. Nell’iconografia religiosa molto spesso viene associato alla figura di Eracle, il guerriero per antonomasia, colui che uccise l’Idra, così come San Michele uccise il drago. Non sono poche le testimonianze dedicate al culto del Santo in Campania, e molte sono le chiese di carattere rupestre che sono state rinvenute nella zona volturnense e matesina, in cui è evidente la preponderanza dei santuari micaelici. Ciò non deve stupire, considerata la fama della grotta dell’Arcangelo sul Gargano, ma anche a causa della natura e alla collocazione delle cavità, spesso connesse alla presenza dell’acqua. Da Costantinopoli la fama dell’Arcangelo, considerata anche a livello terapeutico e taumaturgico, raggiunse rapidamente l’Italia Meridionale, in particolare la Puglia, dove nacque, sul Monte Gargano, il più antico dei luoghi di culto occidentali dedicati al Santo. Il culto micaelico si diffuse nel Sannio grazie ai Longobardi che si convertirono al Cristianesimo nel VII secolo grazie alla preziosa opera di evangelizzazione svolta da San Barbato, vescovo di Benevento.
Il parco del Taburno-Camposauro, tra i suoi boschi e verdi paesaggi, nasconde un gioiello micaelico. Una struttura sacra dedicata al santo guerriero il cui culto fu introdotto anche nel territorio di Frasso Telesino, di cui restano tracce sulla sommità del Monte Sant’Angelo. Con la fondazione della chiesa Collegiata del Corpo di Cristo, nella metà del 1500, la chiesetta di San Michele venne annessa a essa, come attestato da un documento del 1742. La chiesa restò vittima del terremoto del 1688, che la danneggiò molto. Una unica navata, avanti alla porta secondo una descrizione tramandataci,
vi erano tre gradini e un ballatoio in pietra viva, con accanto la fontana della Trinità. All’interno, in una nicchia, la statua in pietra garganica dell’Arcangelo faceva bella mostra. Ancora, un’acquasantiera, un confessionale, un altarino e un piccolo quadro con l’effige del Santo. La chiesa, a partire dalla fine del 1600, venne custodita da eremiti, pii laici, o semireligiosi che custodivano le piccole cappelle di campagna e che, una volta all’anno, venivano convocati in cattedrale dal vescovo, in occasione della festività di San Menna, il quale li invitava a render conto del loro operato.
La tradizione vuole che il 7 maggio, uno dei giorni in cui si celebra San Michele Arcangelo, si porti in processione la statua del Santo, che parte dalla chiesa di Santa Giuliana e arriva proprio nell’eremo. Nel giorno dell’altra celebrazione liturgica del Santo, il 29 settembre, la statua ritorna nella sua chiesa in paese. E durante la celebrazione di maggio, nei diversi quartieri di Frasso si rinnova l’antico rito di accensione del Majo, molto sentito nelle popolazioni di stirpe germanica, come quella longobarda, e dove vi era un’ampia diffusione nei riti pagani della primavera che vogliono evocare la fecondazione e la rigenerazione della natura. Nei vari quartieri, dunque, un grande falò prende vita dalla legna raccolta nei boschi circostanti, accatastati intorno a un grosso albero posto al centro e fissato nel terreno, privato dei rami. In passato, il Majo veniva abbellito da ghirlande fatte di ginestra fiorita intrecciata. Ancora oggi, alcune zone del Sannio molisano, come Fossalto, in provincia di Campobasso, presentano un Majo fiorito simile a quello pocanzi descritto. Mentre il fuoco brucia, canti sacri e popolari, tra cui il moifà, danno vita a balli e a festosi banchetti. Un rituale che oltre a onorare il Santo vuole inoltre fugare gli spiriti dell’inferno. Una tradizione che ancora una volta dà il benvenuto alla stagione della rigenerazione della vita di cui la Primavera stessa è portatrice.
Giornalista