Il 19 maggio 1975 l’Italia, con una nuova legge che prevedeva la modifica del Diritto di famiglia, disse addio alla società patriarcale, momento storico fondamentale. Fino ad allora, infatti, sia nei rapporti patrimoniali che in quelli personali nella famiglia vigeva la subordinazione della moglie al marito, mentre risultavano discriminati i figli naturali illegittimi, ossia quelli nati fuori dal matrimonio. Con la riforma, venne dato un senso più democratico al concetto di famiglia, dando la uguale parità tra i coniugi, posta come base imprescindibile, e con essa nacquero la comunione dei beni come regime patrimoniale automatico, mentre la potestà patriarcale sui figli venne sostituita dalla potestà di entrambi i genitori. Fu anche un grande passo avanti anche per le questioni ereditarie, in quanto in precedenza, in caso di decesso del marito, alla moglie non spettava nulla.
La riforma modificava molti articoli del codice civile del 1942, e faceva un deciso passo verso l’attuazione dell’art 29 della Costituzione, secondo il quale “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Ma fino ad allora, i limiti erano stati molti e pesanti. Sino alla riforma, infatti, il marito-padre era il “capo della famiglia”: “la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”: ecco cosa recitava l’art. 144 del codice civile. Con la riforma, si stabiliva, invece, che la residenza della famiglia e l’indirizzo della vita familiare fossero decisi insieme da moglie e marito e che i coniugi avrebbero potuto avere ciascuno un proprio domicilio nella “sede principale dei propri affari o interessi” (nuovo art. 45 del codice civile). Permanevano, però, delle asimmetrie. Ad esempio, la moglie poteva mantenere il suo cognome ma doveva aggiungervi quello del marito (art. 143-bis) mentre per il marito non era previsto nulla di simile. Né era previsto che i figli nati in seno al matrimonio potessero avere il cognome della madre. Sicuramente, però, la legge rendeva la moglie meno dipendente dal coniuge: per esempio, se una donna sposava uno straniero non perdeva più la cittadinanza italiana. Entrambi i coniugi erano “tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (nuovo art. 143) e, inoltre, “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”, recitava l’art. 230-bis.
Giornalista