La figura di Maria primeggia nella religiosità meridionale. Sono circa un centinaio le denominazioni con cui viene indicata: indicazioni geografiche (del Castello, della Rocca, dell’Arco, ecc.); in alcuni casi l’indicazione topografica indica una localizzazione miracolosa (di Pompei, di Loreto, di Monserrato, ecc.); in altri casi viene accentuata la qualità miracolosa (della Luce, del Buon Consiglio, della Stella, dei Sette Veli, degli Angeli, delle Vergini, ecc.): a quest’ultimo tipo di denominazione si ascrive la figura di Maria venerata nel comune di Solopaca e che prende il nome di Madonna del Roseto.
Alla Madonna è dedicata la chiesa edificata intorno al XII secolo che sovrasta il paese dal monte del Roseto e si affaccia su tutta la valle telesina. Un culto molto diffuso e che vede ogni anno la sua festa il primo lunedì di giugno, quando la statua lignea di Maria viene portata in paese, con una partecipata processione di fedeli accorsi da tutti i paesi vicini, e lasciata fino al primo lunedì di settembre quando farà ritorno alla chiesetta del Roseto.
La figura di Maria, a riprova della ricchezza di motivi che la caratterizzano, assume una grande valenza simbolica nella storia sociale e morale delle popolazioni (non solo meridionali ma dell’intero mondo cristiano). La molteplicità delle denominazioni esprime una volontà di appropriazione da parte dei fedeli che ne fanno un riferimento culturale di riscatto e di consolazione. Il culto mariano trova una maggiore eco, non a caso, nella storia delle plebi meridionali, in una società fortemente connotata in senso agrario, dominata da una costante precarietà che avverte il continuo bisogno di affidarsi, l’esigenza continua di protezione.
Nel Mezzogiorno alcune denominazioni mariane prevalgono nettamente sulle altre: Assunta, delle Grazie, del Carmine, Immacolata, della Neve, Addolorata, Annunziata ed infine quella del Rosario. La rosa assume un ruolo di primo piano nella simbologia medievale: tanti erano i significati esoterici o popolari, religiosi o letterari che era chiamata a incarnare in ragione alla sua forma, colore, profumo, numero dei petali, presenza di spine.
Per lo storico francese Jacques Le Goff “San Bernardo sottolinea che la Vergine è simboleggiata tanto dalla rosa bianca, che indica la verginità, quanto dalla rosa rossa che rende sensibile la sua carità.” Come riferiscono Heinz-Mohr e Sommer nel libro La rosa. Storia di un simbolo, “… le rose della sofferenza e le spine delle rose sono parte integrante della vita di molti santi… Una tradizione riferisce che San Francesco si rivoltò fra gli spini prima di ricevere le stimmate, e aggiunge che non soltanto gli spini si tramutarono in rose, ma la stessa pianta perse le spine”.
Nel processo di trasformazione dei culti pagani della grande Madre Natura, l’allegoria della femminilità generatrice diviene il culto della Vergine, Madre di Dio e di tutti gli uomini. Questa traduzione ne trasferisce anche i simboli: la rosa viene consacrata a Maria. Nell’Eden il roseto rappresentava Eva e quindi il peccato, Maria è l’anti-Eva (nel saluto “Ave Maria”, il latino Ave è antipodo di Eva), la rosa diviene il segno della fragilità e caducità dell’anima tentata dal peccato.
La rosa di colore bianco nel Medioevo indicava la purezza, sostituisce il rosso, colore della passione e della vergogna, divenne l’emblema della Vergine, indicava la salvazione. Nella letteratura la Vergine Maria viene invocata con appellativi quali: “Rosa Mystica”, “Rosa Fragrans”, “Rosa Rubens”, “Rosa Novella”, “Rosa das Rosas”, ossia Rosa tra le rose.
I petali di rosa preparati in infuso o essiccati venivano adoperati in varie preparazioni per le sue qualità taumaturgiche, come la cura per gli incubi, l’ansia, la vista, la rabbia (rosa canina). Durante le pestilenze si portavano indosso rose contro il rischio del contagio e con i petali di rosa si depurava l’aria e si disinfettavano le vesti.
Curiosità: Giuseppe Pitrè, ricorda che a Palermo, durante la peste del 1575, “i poveri disinfettavano le case con suffumigi di rosa, lauro e cipresso…”. Negli anni ’80 l’antropologo Alfonso Di Nola scoprì il “Rito della passata”, anche conosciuto come “Arco di rovo”, rituale, ancora vivo in alcune zone del Sud e della Campania: “In quei giorni – racconta l’antropologo in un libro biografico, Attraverso la storia delle religioni – ebbi modo di visitare un paese, Pescopagano, che si trova al confine con la Lucania. Era il 25 marzo, e in quel giorno veniva celebrato uno strano rito, il rito dell’arco di rovo, appunto, durante il quale in un ramo di rovo veniva aperta una fessura ovoidale. Nella fessura, per tre volte, veniva introdotto e sostenuto da due personaggi maschili che stavano ai due lati, un bambino di tre-quattro mesi completamente nudo ed esposto ai rigori della neve e del gelo. Il bambino era poi velocemente avvolto in una coperta e portato in chiesa dove, sull’altare, erano disposti i panni per rivestirlo”.