Immagini dal Sannio: la leggenda del Monte Janara, amore matesino stroncato

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Panorama di Valle Agricola, foto tratta da Wikipedia

È piccolo e isolato, il borgo di Valle Agricola, centro del Matese campano che vede affondare le sue radici all’epoca sannita quando era tappa obbligata dei pastori che si dirigevano verso i pascoli di montagna. Arroccato sulle pendici del Monte Cappello, da cui è possibile ammirare il mar Tirreno ma anche il Golfo di Gaeta, si trova a 700 metri sul livello del mare, e conta poche centinaia di abitanti. Il borgo è caratterizzato da un radicato senso di appartenenza alle proprie radici e tradizioni, con viottoli e stradine che si intersecano e i suoi quattro “pizzi”, i rioni in cui il borgo è diviso. Valle Agricola deve il suo etimo proprio alla sua forte propensione alla vita rurale, territorio dal tipico stampo agricolo e pastorale, terra che conserva diverse memorie storiche. La sua connotazione pastorale viene testimoniata dal ritrovamento di diverse tombe nelle quali sono stati rinvenuti utensili in ceramica e armi in ferro d’epoca preromana. Eppure è stato nel Medioevo che si è sviluppato il centro, con l’alternarsi di diversi feudatari. All’epoca il paese si chiamava Valle di Prata, in quanto era assoggettato alla Baronia di Prata. L’antica Torre Pandone, risalente al XV secolo, eretta dai conti Pandone, sovrasta l’intero abitato. Valle Agricola è un piccolo paese che gode di un bellissimo paesaggio, con un clima salubre che offre la possibilità di immergersi nella rigogliosa natura per passeggiare o praticare attività come escursioni a piedi, a cavallo o in mountain-bike, nelle rigogliose faggete che la rendono davvero speciale. Il territorio, conosciuto come Valle Janara, conserva tracce di antiche tradizioni e leggende, tutte risalenti perlopiù all’epoca medievale, come testimoniato dai resti di fortezze e baratri che sono veri topoi per le leggende che si legano a quest’affascinante zona. Storie e racconti tramandati dal popolo, a volte menzionati anche in ballate popolari e fonti storiche.

La più nota è certamente la leggenda di Monte Janara, che pare si chiami così perché secoli e secoli fa le streghe solevano incontrarsi proprio nei suoi pressi, in raduni che davano vita ai Sabba, per dar conto del proprio operato al Signore del Male. La nota leggenda si ricollega all’antico ius primae noctis. Sembra, infatti, che al tempo delle signorie bannali, o di castello, le coppie che desideravano sposarsi dovessero chiedere la benedizione del signorotto locale. A lui era concesso, qualora lo desiderasse, il diritto di trascorrere la prima notte di nozze con la sposa senza che lo sposo potesse in alcun modo opporsi e ribellarsi. Nessuna fonte storica attesta la verità dell’esistenza di questo privilegio. La maggior parte degli storici ritiene che lo ius primae noctis consistesse in una tassa da pagare. Il servo della gleba rientrava nella proprietà feudale del signore, ragion per cui la sua vita, anche quella amorosa, era legata alla volontà del suo feudatario. Questo valeva anche per ottenere il consenso alle nozze. In quel caso, per potersi sposare, il giovane doveva pagare un tributo pecuniario.

Raffigurazione dello ius primae noctis, immagine di copertina tratta da Wikipedia

La leggenda del Monte Janara narra che durante il XV secolo due giovani contadini chiesero al feudatario di Prata, Pandone, il consenso per poter convolare a nozze. La coppia era davvero bella e ben assortita: lui era alto, moro, con un fisico molto prestante. Lei esprimeva dolcezza e delicatezza, con i suoi occhi azzurri, la pelle bianca come la luna e i lineamenti fini, regolari e delicati, i capelli corvini. Cominciarono tutti i preparativi delle nozze, i due si amavano molto e non volevano aspettare troppo prima di coronare il loro sogno: venne cucito l’abito da sposa e costruita la casa in cui avrebbero vissuto. Avvisarono parenti e amici delle imminenti nozze, decisero persino le danze per la festa matrimoniale e furono altresì intrecciate le corone di fiori che avrebbero adornato i loro capi. L’unica incombenza che rimaneva era quella di chiedere il permesso al signore feudale. Questi, appena si trovò al cospetto della bellissima fanciulla, subito ne rimase affascinato e rivendicò, senza dubbio alcuno, il suo diritto a trascorrere la prima notte di nozze con lei, strappandola dalle braccia del giovane e facendola sua prigioniera rinchiudendola in una stanza del maniero, aspettando che diventasse notte per avanzare i suoi diritti. Lo sposo però si ribellò a tale volontà e la notte in cui si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio irruppe nel castello, per evitare che quella pratica barbara venisse portata a termine. Entrò nella stanza da letto del conte e infilzò un pugnale, con una lama lunga e sottile, nel torace del signorotto, portando in salvo la sua sposa. I due innamorati, dopo essere fuggiti dal castello, dovettero ben presto separarsi. Il giovane, infatti, per non dover pagare le conseguenze della sua violenta e vendicativa azione, si rifugiò sul monte, chiedendo alla sua donna di attenderlo nel bosco, nascosta e al sicuro. Diede un unico, veloce e appassionato bacio alla sua donna e scappò proprio nella parte più alta della montagna, a circa 1500 metri sul livello del mare, pensando che, data l’elevata altitudine e il luogo isolato, lì potesse essere al sicuro. Fu però scoperto, raggiunto e infine accerchiato dalle guardie del signore che mossero violenza contro di lui. Mentre gli trafiggevano il cuore, alla stregua di quanto lui aveva fatto col signorotto locale, rivolse il suo sguardo verso la luna piena e gridò il nome della sua amata che non avrebbe rivisto mai più. Il suo sangue cominciò a colorare le rocce montane e il giovane, con lo sguardo rivolto al pallido astro notturno, sussurrò per l’ultima volta il nome della sua amata. Secondo la leggenda, da quel momento lo spirito del ragazzo ancora oggi, ogni notte, vaga tra i sentieri e i boschi della montagna, con gli occhi rigati di lacrime. E durante le notti di luna piena è possibile sentire il suo grido di vendetta rivolto al cielo (alcuni dicono che urli un nome, magari quello della sua donna, altri pensano sia una preghiera), con urla strazianti e pianti disperati per la perdita del suo grande amore.