Il Sannio beneventano è la terra delle leggende, della storia, delle tradizioni, della gastronomia a chilometro zero e del buon vino. Il suo territorio è notevole, la più grande dispensa di uva e vino dell’intera Campania. La produzione sannita copre addirittura il 50% dell’intera produzione vitivinicola e la straordinaria distesa di vigneti beneventani sorge su terreni in massima parte argilloso-calcareo-silicei. I vitigni coltivati sono per la maggior parte Aglianico (28%), Falanghina (12%), Sangiovese e Barbera o Camaiola (6%), Malvasia bianca di Candia (5%) e Greco (4%). In Italia, il turismo del vino cresce a perdita d’occhio, con numerosi servizi dedicati, strutture di accoglienza, percorsi tra i vigneti. Un binomio che punta sulla valorizzazione del territorio, sulla promozione dell’offerta e sulla commercializzazione del prodotto. Sannio Falanghina – Città Europea del Vino 2019, progetto di coesione territoriale finanziato dalla Regione Campania grazie al POC Turismo Campania 2014-2020, ha consacrato a “Terra dei Vini” il territorio della provincia di Benevento, donandole un considerevole slancio enoturistico. La nomina è stata riconosciuta da Recevin a un’intera area sannita, comprendente 23 comuni dell’area della Falanghina del Sannio, guidati da cinque comuni Città del Vino, che sono Guardia Sanframondi, Castelvenere, Torrecuso, Solopaca, Sant’Agata de’ Goti. Borghi storici, dalla straordinaria bellezza, uniti dalla vocazione agricola ed enoica, ma anche da notevoli testimonianze storiche e culturali. Come memoria visiva del gratificante evento del 2019, oggi ognuno dei borghi conserva un murale a tema viticoltura che va a celebrare la grande ricchezza del territorio (leggi l’approfondimento cliccando qui). Con le Immagini dal Sannio di oggi, in sintesi racconto bellezza, storia e fascino dei piccoli comuni del Sannio che hanno portato la propria terra alla ribalta col grande evento internazionale del 2019.
Guardia Sanframondi – La prima carta che documenta, con una citazione, l’abitato del borgo risale al 1268, con l’iscrizione di Guardia Sancti Fraimundy, toponimo che sembra alludere alla presenza di San Fremondo, monaco benedettino, da cui hanno poi tratto il nome sia il luogo che la famiglia dei Sanframondo. Eppure, già nell’856 il borgo è citato come Bicu de Fremundi da cui, secondo alcune ipotesi, sarebbe derivato il nome di Sanframondo al condottiero normanno Raone, primogenito della famiglia che, alla fine del secolo, divenne feudatario di Guardia. In ogni caso, la località assunse il nome di Warda, ossia luogo di guardia, di vedetta, sfruttando l’elevata e strategica posizione collinare. E, proprio da questa bella collina, si riesce a dominare con lo sguardo tutta la Valle del medio e basso corso del fiume Calore. I conti Sanframondo dotarono Guardia di un enorme castello che permetteva il controllo dell’intera vallata, baluardo di tutto il sistema di difesa sannita. Il castello normanno è un po’ il simbolo storico e architettonico di Guardia, che nel tempo ha assunto una sagoma da palatium. Chi si reca a Guardia non può non visitare la chiesa di San Sebastiano, umile edificio sacro a unica navata, scrigno prezioso e luminoso che conserva opere prestigiose, firme autorevoli, eleganza e maestosità, luce che si irradia da ogni angolazione, tanto da essere denominata La piccola Cappella Sistina del Sud. La chiesa è legata all’antica tradizione dei conciatori di pelle, attività che le ha dato grande lustro in passato, fiore all’occhiello di Guardia Sanframondi che le conferì il titolo di Guardia delle sòle. Bellissima è anche la chiesa Ave Gratia Plena, edificata nel XV secolo come piccola cappella, oggi interdetta al culto, ma importante hub culturale di Guardia; e ancora, la chiesa di San Rocco, dalla pianta ottagonale, o il convento di San Francesco, e piccole cappelle e luoghi di culto oggi purtroppo dismessi. Dal ponte Ratello è possibile ammirare un panorama maestoso, nei pressi di via Dietro gli Orti, di recente ristrutturazione, una strada terrazzata sui verdeggianti orti pensili di Guardia. In paese è vivo il richiamo nei confronti della Vergine dell’Assunta che ogni cittadino ama come una Madre, il cui culto si manifesta a cadenza settennale nei Riti Settennali in onore dell’Assunta, in cui fedeli, figuranti, penitenti, flagellanti e battenti dedicano il loro gesto di penitenza nei confronti di Maria. Ed è nel bellissimo santuario mariano dell’Assunta e di San Filippo Neri, Basilica Pontificia di Guardia Sanframondi, che troviamo la luminosa nicchia con l’amata statua lignea, illuminata anche grazie alle preziose stelle che si trovano sul suo mantello trapuntato. Guardia è la sede de La Guardiense, una delle cooperative vitivinicole più grandi in Italia, i cui agricoltori soci coltivano nei comuni limitrofi a un’altitudine media di circa 600 metri sul livello del mare, in un territorio che oltre a quello guardiese, riguarda anche i paesi di San Lorenzo Maggiore, San Lupo e Castelvenere.
Castelvenere – Circondata da colline ricche di vigneti e di uliveti, rigogliose e verdeggianti, è un piccolo borgo che nasconde un forte senso di comunità e identità, attorniato da viti, ettari ed ettari di terreni agricoli che l’hanno fatta riconoscere come comune più vitato del sud Italia. Un borgo rurale che fonda la sua economia sull’agricoltura stessa, e più precisamente sulla viticultura. È patria di San Barbato, vescovo di Benevento, responsabile della diffusione del Cristianesimo tra la popolazione dei Longobardi, che abbatté il mitico noce di Benevento, intorno a cui si riunivano le streghe per compiere riti magici. Alcune ipotesi legano il toponimo all’esistenza di un tempio dedicato a Venere, mentre sembra più probabile che il termine Venere rappresenti l’evoluzione linguistica del più antico Vadari, di origine longobarda, riportato in documenti antichissimi relativi al vescovo Barbato, da collegarsi a walda, termine con cui il popolo nordico denominava i boschi. A Castelvenere è legato uno dei rinvenimenti dell’archeologia preistorica più interessanti del Mezzogiorno, la palafitta detta di Castelvenere, dovuto a un presunto evento miracoloso che risale al 1898, quando la Madonna apparve a una veggente che fu sollecitata a scavare terreno di proprietà della famiglia Piccirillo dove, secondo la medium, sarebbe stata sotterrata un’immagine sacra di grande valore taumaturgico. La notizia destò subito molto clamore e, grazie alla grande affluenza dei fedeli, si dette inizio a uno scavo stratigrafico. Una zona che subito si rivelò ricca di reperti archeologici. Continuando a scavare, emersero i resti di un insediamento palafitticolo preistorico costituiti da 99 pali conficcati verticalmente nel terreno disposti in quattro file e uniti con traverse orizzontali in modo da formare una piattaforma lunga 25 metri e larga 14. Una visita nel piccolo borgo del Sannio beneventano impone di recarsi presso le chiese di Santa Maria della Seggiola, di San Nicola e della Madonna della Foresta. La Torre di Venere, crollata nel 2006 e riconsegnata alla sua comunità nel 2016, ha restituito al territorio lo splendore della sua antica fortezza, datata XV secolo. Era una delle torri che dovevano difendere, insieme al castello, l’antico borgo medievale, la via del Fossato e piazza Mercato che accoglie al centro l’antico pozzo. Le cantine tufacee, risalenti al periodo rinascimentale, venivano utilizzate fino agli anni Settanta del secolo scorso. Sono grandi spazi scavati a mano, nel tufo, che conservano ancora oggi vani che all’epoca erano adibiti a cucine, camere da letto, locali per gli animali, stanze per la conservazione di cibi e vini. Mostrano ancora oggi l’evoluzione e l’ingegno del lavoro umano, tanto che alcune pareti conservano antichi appunti scritti a mano, numeri, conti. È lì che è possibile imbattersi in pietra, mattone, tufo bianco e tufo nero. È lì che ancora oggi vengono conservate grandi botti che in passato vennero costruite direttamente all’interno, e vasche d’acciaio che riuscivano a mantenere la temperatura adatta per la conservazione dei vini, che all’esterno verrebbe raggiunta solo da macchinari moderni, come frigoriferi o freezer.
Torrecuso – Piccolo borgo del beneventano, è un gioiello medievale affacciato a vedetta del Monte Taburno e della Valle del Calore. La sua posizione fa perfettamente comprendere l’origine e la funzione che ha svolto nei secoli passati: Torrecuso, infatti, ha alle sue spalle il monte Pentime, visto come difesa naturale della città di Benevento, centro del potente ducato longobardo. Inoltre, le sentinelle che si trovavano a guardia potevano tenere sotto controllo anche l’Alto Tammaro e le colline del Fortore. Ha origini antiche: qualcuno lo data al 216 a.C. circa, mentre altri pensano che fosse già abitato nel 316 a.C., con un nucleo abitato composto da alcuni profughi etruschi della città toscana di Chiusi che per questo motivo lo chiamarono Turris Clusii. Altri studiosi propendono sul fatto che Torrecuso derivi da torus o toronis che significano “altura” o “colle”, rispondente alla situazione del paese; da torus poi il diminutivo torricolus da cui Torlicoso e infine Torrecuso. Il centro storico, sviluppatosi in epoca longobarda, è rimasto pressoché intatto: stradine, o rampe, quasi parallele che sboccano in larghi angoli pittoreschi, tra archi e casette in pietra con scale a giorno. Viuzze strette e tortuose che si ritrovano tutte attorno al rinomato Palazzo Cito, dimora dei Cito, feudatari di Torrecuso, sede del primo Museo di Arte contemporanea del vino e della Filiera enogastronomica del Sannio con annessa Scuola del Gusto, di cui un’ala oggi è sede del Municipio. Imponente la costruzione del castrum marchesale al cui cospetto si capisce immediatamente che ci si trova in un luogo nato per motivi difensivi. Con il primo sole di marzo, sui muri e sui tetti delle case di Torrecuso, tra le aiuole, nei giardini, nelle siepi, sbocciano i fiori emblematici di questo paese. Sono delle viole dai petali luccicanti, lievemente profumate, dal giallo abbagliante che sembra una sottile lamina di foglia oro. Parlo della Viola d’oro o Viola di Spagna. Sembra, infatti, che i primi semi di questa pianta siano arrivati a Torrecuso proprio grazie a un soldato spagnolo al servizio del Marchese Carlo Andrea Caracciolo. Qualcuno, invece, dice che sia stato lo stesso marchese a portare i semi dalla Spagna, per rendere omaggio al capoluogo del proprio feudo. Il fiore è stato poeticamente descritto da Antonio Mellusi, nei Ricordi della Patria
Solopaca – Non vi è certezza sull’origine del suo nome: alcuni pensano che derivi dal latino Sol opacus, ossia paese poco soleggiato, altri invece ritengono che il toponimo derivi dal latino sub pago, cioè villaggio “che è sotto”, riferendosi alla sua posizione geografica, per l’appunto sotto il Monte Taburno. Altri studiosi, invece, sposano l’ipotesi che Solopaca deriverebbe da super pagos, cioè villaggio situato in “posizione elevata” rispetto agli altri della Valle. Ebbe origini molto antiche ma le prime attestazioni a tutti note risalgono al Medioevo. Probabilmente il nucleo urbano nacque come casale o piccola frazione dell’antica Telesia quando, dopo il terremoto del 1349, con le conseguenti esalazioni di vapori solfurei, quest’ultima si spopolò, incrementando la popolazione dei comuni vicini tra i quali, appunto, Solopaca. Il paese è caratterizzato da una forma stretta e lunga, e vi sono conservati gioielli architettonici di alto prestigio. Sono due le chiese parrocchiali di Solopaca: San Martino di Tours e San Mauro martire. Di rilevante importanza anche il santuario della Madonna del Roseto, di origine benedettina, che sorge sul Monte delle Rose, edificato intorno al XII secolo, punto di riferimento visivo di tutta la valle circostante. Dopo essere caduto in rovina, nel 1747 il vescovo Falangola ordinò il restauro della struttura che crollò con il terremoto del Molise del 1805. La statua della Vergine, salvatasi, venne trasportata nella chiesa di San Mauro dove, col tempo, fu dimenticata e riposta in un mobile nel vano sottostante al campanile. Il 1844 fu l’anno di una grave siccità: per questo motivo, la statua venne portata in processione con il voto che, in caso di pioggia, i cittadini di Solopaca avrebbero riedificato la chiesa. Il miracolo avvenne: un’improvvisa e forte pioggia investì il borgo e pochi mesi dopo i suoi cittadini, orgogliosamente devoti e riconoscenti, cominciarono i lavori di ricostruzione. Ogni anno, il primo lunedì di giugno, i cittadini di Solopaca portano in processione la statua della Madonna del Roseto dal santuario omonimo fino al paese. Oltre ai diversi e splendidi palazzi signorili presenti nel territorio cittadino, una delle strutture più importanti di Solopaca è il ponte Maria Cristina, inaugurato nel 1835 da Re Ferdinando II di Borbone e intitolato alla moglie Maria Cristina, distrutto alla fine della Seconda Guerra Mondiale a causa di un bombardamento americano e ricostruito nella medesima località. Del vecchio ponte restano le piazzole semicircolari ai due imbocchi, i quattro leoni in marmo e i quattro grossi pilastri che reggevano le catene e che, con l’edificazione della nuova struttura in cemento armato, furono posti in posizione arretrata rispetto alla loro collocazione originaria, conservati solo per ricordo. I leoni, purtroppo, hanno subito un furto nel 2003 e sono stati recentemente sostituiti. È qui presente una delle più antiche cooperative agricole della Campania, La Cantina di Solopaca che, con i suoi 120mila ettolitri di vini prodotti, è ai primi posti nella produzione regionale. Ed è proprio a Solopaca che si svolge una delle più importanti manifestazioni legate al vino, la Festa dell’Uva, che fin dalla sua prima edizione del 1979 si caratterizza per uno scenario unico e suggestivo, con la sua sfilata dei carri che trainano sculture fatte rigorosamente e minuziosamente con acini d’uva.
Sant’Agata de’ Goti – Ai confini tra Sannio e Terra di Lavoro, in Valle Caudina, alle porte della provincia di Caserta e alle falde del Monte Taburno, Sant’Agata è adagiata su uno sperone di tufo. Anticamente nel territorio della cittadina caudina sorgeva Saticula, città sannita, e non è un caso che vi siano state rinvenute alcune necropoli dell’epoca ricche di importanti ritrovamenti. Anche il Cratere di Assteas, splendido gioiello archeologico saticulano oggi conservato al Museo Caudino di Montesarchio, è stato ritrovato da un operaio edile, un certo Cacciapuoti, durante i lavori di scavo per la rete fognaria. L’attuale toponimo si riferisce innanzitutto alla patrona catanese Sant’Agata martire, molto venerata in tutto lo Stivale, mentre quanto all’aggiunta di de’ Goti, è consuetudine pensare che ci si riferisca ai vinti della battaglia del Vesuvio del 533 dopo Cristo, ai quali venne concesso di restare nelle loro fortezze come alleati dell’Impero Bizantino. È molto probabile, invece, che ci si debba riferire alla famiglia normanna Drengot, nome storpiato in De-Goth, che nel Medioevo ebbe il territorio in feudo dai Longobardi. Nel 343 a.C. il console Aulo Cornelio Cosso stabilì sulla rocca tufacea un primo castrum, accampamento invernale per i soldati veterani. A prima vista quel borgo in alto allo sperone di tufo sembrò subito perfetto per la costruzione del castrum mentre alla base della rocca si appostavano i nemici nel tentativo di espugnare Sant’Agata. Con la riforma dell’esercito romano del IV secolo, voluta da Diocleziano, si arrivò a una maggiore inaccessibilità dei costoni tufacei che fungevano da basamento al villaggio e alla costruzione, al di sopra di essi, di una cinta muraria perimetrale composta da case accostate l’una all’altra in aderenza, con pochissime aperture estremamente piccole. È proprio lì che risiede parte del suo fascino, così austera ed elegante, adagiata su quel vertiginoso sperone di tufo che è circondato a destra e a manca da corsi d’acqua. Sant’Agata de’ Goti fa parte del circuito dei Borghi più belli d’Italia, ed è stata premiata con la bandiera arancione del Touring Club Italiano, proprio grazie alla sua particolarità architettonica. Il ponte Vittorio Emanuele supera il verdeggiante vallone del torrente Martorano, ed è proprio da lì che si può godere della vista più suggestiva dello splendido centro storico. Dall’altra parte del ponte ci si trova di fronte ai maestosi resti del Palazzo Ducale, eredità del castello fondato dai Longobardi e modificato dai Normanni. Tante sono le chiese, solo nel centro storico se ne contano dieci, ricche di affreschi. Tra queste il duomo, o cattedrale di Santa Maria Assunta, fondato nel 970, ricostruito nel XII secolo e restaurato fra il 1728 e il 1755; il Palazzo Vescovile, nella piazza del Duomo, è un altro monumento degno di nota e di visita. Il suo Salone degli Stemmi, con le effigi di 68 vescovi, è indicativo del ruolo e dell’importanza della locale diocesi. Negli altri ambienti sono esposti cimeli e suppellettili legati alla vita e alla permanenza di Sant’Alfonso Liguori, il vescovo di Sant’Agata dal 1762 al 1775, che con molta dedizione si occupò delle brutture e dei reietti della zona. Nel territorio di Sant’Agata passa l’Acquedotto carolino, patrimonio Unesco, colosso dell’architettura vanvitelliana, opera dal grande ingegno, che preleva l’acqua alle falde del Monte Taburno per giungere fino alla Reggia di Caserta.
Giornalista