Immagini dal Sannio: il tartufo bianco matesino di San Pietro Avellana e Ceppaloni

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Il tartufo bianco del Matese, foto di copertina tratta da matese.guideslow.it

I tesori che il Matese offre hanno un valore inestimabile. Flora variopinta, diverse specie faunistiche e poi le delizie di boschi e sottobosco. I funghi epigei e ipogei sono alcune delle eccellenze della zona, e oggi è proprio di questi ultimi che vogliamo raccontare. I boschi sanniti e matesini sono davvero ricchi di tartufi, tuberi ipogei dal grande valore nutrizionale ma anche economico.

Il termine tartufo deriva dal latino terrae tufer, escrescenza della terra dove tufer sta per tuber, che nulla ha a che vedere con le patate, i tuberi a noi più noti. Erano presenti diverse specie già anticamente presso i popoli mediterranei; le prime notizie compaiono nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, anche se molte testimonianze dimostrano la sua presenza anche nella dieta dei Sumeri e al tempo del patriarca Giacobbe, intorno al 1700 a.C.. Dalla Mesopotamia si estese anche in Grecia: fu qui che nel I secolo d.C. il filosofo Plutarco di Cheronea formulò l’ipotesi secondo la quale i tartufi sarebbero stati generati dalla combinazione di acqua, fuoco e fulmini scagliati da Zeus in prossimità di una quercia, albero a lui sacro. Tale leggenda fu in seguito ripresa anche dal poeta Giovenale. Il tartufo più famoso e diffuso è certamente quello piemontese di Alba, ma le distese boschive del Sannio non sono da meno in quanto a produzione di questo raffinato frutto della terra.

Il tubero bianco, che annualmente viene raccolto tra settembre e gennaio, trova in Molise e in Campania delle zone in cui la coltivazione e la produzione si intensificano. San Pietro Avellana, comune in provincia di Isernia di circa 500 abitanti, è noto per la bellezza del suo territorio, immerso nella più incontaminata natura circondata dal torrente Rio, affluente del fiume Sangro, e dal fiume Vandra, affluente del Volturno. Tra boschi di faggi e cerri ci si imbatte nei ruderi di un monastero medievale in cui era conservato il Chronicon Volturnense, catasto delle chiese della Valle del Sangro appartenenti al Monastero di San Vincenzo al Volturno, una delle abbazie benedettine di fondazione altomedievale più importanti dell’Italia centro-meridionale. Il borgo nacque nel X secolo attorno alla suddetta abbazia e il nome Avellana forse deriva da Volana, città sannita distrutta durante la terza guerra sannitica. Ceppaloni è un comune del Sannio beneventano che si estende sulle colline poste tra le valli del fiume Sabato e del torrente Serretelle, tra boschi di querce e castagne. In epoca romana, il territorio ceppalonese rientrava nell’ager beneventanus, alle assolute dipendenze della città di Benevento, da cui dista solo circa 13 km. Le prime notizie storiche del borgo sannita risalgono alla fine del VIII secolo, al tempo del ducato longobardo. Il suo nome ha origini incerte. Probabilmente, Cepalonis deriva dal latino Caeparius che col suffisso –anus formerebbe Caeparanus, ossia fondo di Caeparius. Potrebbe anche derivare da Cippus leonis, ossia cippo del leone, in cui per cippo si intende un’altura, un monte o una colonna. Il suo castello, di origine normanna, è il simbolo medievale per eccellenza del borgo ed è situato nella parte più alta del paese. Venne rimaneggiato nel periodo federiciano svevo-angioino ed ebbe un importante ruolo nei conflitti tra angioini e aragonesi.

Il Molise è considerato una delle prime regioni per la crescita del tartufo, ed è da qui che sulle tavole italiane arriva circa il 35-40% del tartufo bianco. Il territorio San Pietro Avellana, con i comuni limitrofi di Frosolone e Spinete, è quello in cui la produzione è maggiormente intensificata. Nell’area di Ceppaloni, con Apollosa, Arpaise e San Leucio del Sannio, invece, la valorizzazione di questo prodotto è stata intensificata nell’ultimo decennio e ogni anno, tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, viene organizzata la manifestazione Tartufo al Borgo, per valorizzare questo rinomato prodotto di eccellenza del territorio, e per promuovere le risorse storiche, culturali e paesaggistiche del borgo sannita. I due borghi sanniti fanno parte dell’Associazione nazionale Città del tartufo.

Bruschetta al tartufo bianco, foto d’archivio

Il Tuber magnatum, il “tartufo bianco”, è davvero molto pregiato e la presenza nell’area matesina è notevole. Si tratta di uno dei funghi più apprezzati, spesso proposto con tagliatelle, trofie, tagliata di carne, bruschette e paté, prevalentemente grattugiato, come si fa con il parmigiano, ma ovviamente anche allo stato cremoso. Le caratteristiche che lo differenziano dal tartufo nero sono il profumo meno delicato e il sapore più intenso, leggermente piccante, con una forma dal contorno chiaro e irregolare. Il tartufo bianco predilige un tipo di terreno calcareo con buona areazione ma molto umido, mentre il tartufo nero si trova prevalentemente in terreni con poca acqua e abbastanza asciutti. Il prezzo della versione bianca è decisamente più alto rispetto a quello del “collega” più scuro e anche in cucina solitamente si utilizza in maniera completamente differente: esso va affettato direttamente su un piatto ancora caldo, per far sì che vengano sprigionati i suoi aromi. La regola numero uno vuole che non vada mai cotto: prima di consumarlo, va pulito con una spazzolina sotto l’acqua corrente, lo si fa asciugare e lo si lamella a crudo. Con il tartufo bianco solitamente si condiscono tagliatelle, trofie, tagliolini o risotti, meglio se in bianco, su cui spolverizzarlo grattugiato, come si fa con il parmigiano. Ottimo sulle tagliate di carne, esalta anche il sapore di quella cruda. Può inoltre essere l’ottimo protagonista dei più gustosi aperitivi, spolverizzato su croccanti bruschette ai formaggi freschi, o come ripieno in arancini di riso e ricotta, stando attenti a dosare le minime quantità per ogni arancino. Non solo: una bella insalata di verdure fresche e crude, con pomodorini locali e una spolverata di lamelle di tartufo bianco, sarà il tocco perfetto per una cena di classe.