Il 25 gennaio 2016 Giulio Regeni aveva appuntamento con l’amico Gennaro Gervasio, in un caffè del centro del Cairo alle 20.30, ma mai vi arrivò. Le sue ultime tracce sono quelle di un messaggio inviato alla fidanzata, “Sto uscendo” alle 19.41. Giulio Regeni era un ricercatore italiano di 28 anni che raggiunse il Cairo per svolgere una tesi di dottorato sui sindacati indipendenti egiziani, torturato per nove giorni e infine abbandonato senza vita ai margini della Desert road, una superstrada che collega la capitale ad Alessandria. Sono trascorsi sette anni e la famiglia di Regeni continua a chiedere alle istituzioni verità e giustizia per quella fine tanto atroce. Il 25 gennaio in Egitto ricorre l’anniversario delle proteste di piazza Tahrir. Giulio aveva già vissuto per qualche tempo nel paese arabo e di certo non era uno sprovveduto, ma forse l’Egitto era un posto decisamente scomodo per andare in giro a fare domande sui sindacati, da soli e s3nza le spalle ben protette. Il cadavere del giovane venne ritrovato solo nove giorni più tardi, il 3 febbraio, e le autorità egiziane furono certe fin dal principio che si trattasse dell’italiano, nonostante le pessime condizioni del cadavere. Persino la madre, Paola Deffendi, ammise di aver riconosciuto Giulio solo dalla punta del naso. Accanto al corpo era adagiata una delle coperte in uso agli apparati militari.
I media vicini al governo iniziarono subito una diffamante campagna nei confronti della vittima, parlandone come di un tossicodipendente, o uno spacciatore, o anche un agente dei servizi segreti. Fu archiviata l’ipotesi di incidente stradale, sostenuta nelle prime ore, e si arrivò alla pista del delitto passionale. Quando il cadavere atterrò in Italia, apparve subito chiaro che la vicenda era certamente più complessa. L’autopsia rivelò la frattura di un polso, delle scapole, dell’omero destro, delle dita delle mani e di quelle dei piedi, dei peroni e la rottura di numerosi denti, la cute segnata da tagli e bruciature. Giulio Regeni morì solo dieci ore prima del ritrovamento, stroncato da una torsione delle vertebre cervicali, dopo nove giorni di sofferenze atroci, evidentemente per mano di un assassino con alle spalle un addestramento militare o paramilitare.
Il 24 marzo 2016, il ministro dell’Interno egiziano annunciò su Facebook che l’omicidio di Giulio Regeni avesse finalmente dei colpevoli, una banda di malviventi composta da cinque uomini nella cui base operativa sono stati trovati gli effetti personali di Giulio: il passaporto, il suo badge universitario, bancomat, portafoglio e occhiali da sole. E anche una pallina d’hashish. Durante uno scontro con la polizia, gli uomini furono uccisi e questa versione resse solo pochi giorni perché, dall’analisi delle celle agganciate dal suo telefono, si scoprì che Tarek Saad Abde El Fattah Ismail, il capo della banda, quel 25 gennaio si trovava a 100 chilometri dal luogo della scomparsa di Giulio. Non è mai stata fatta chiarezza, si sono mobilitate associazioni come Amnesty International o il Parlamento europeo di Strasburgo, cittadini e istituzioni locali e internazionali ma il caso di Regeni resta ancora nella nuvola del mistero.
Giornalista