Re Carnevale e sua sorella Quaresima, fratelli diversi e speciali

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In un regno allegro e pieno di colori, c’era un grande castello, luminoso e scintillante, in cui ogni giorno si teneva una festa. Viveva lì un ricchissimo re, simpatico, divertente, giocondo e pasticcione. Il suo nome era Carnevale, un omone grande e grosso con i baffi all’insù, che vestiva sempre abiti rattoppati dalle tonalità sgargianti. Era molto generoso, apriva a tutti le porte del palazzo: se qualcuno vagabondava alla ricerca di cibo e fortuna, il re lo ospitava nelle stanze del suo fastoso maniero per far sì che avesse cibo in abbondanza, caldo a sufficienza e tempo per poter immaginare e progettare un futuro migliore.  

Carnevale aveva una sorella di nome Quaresima, dal carattere completamente opposto. La giovane fanciulla, malinconica e non sposata, esile, emaciata e sempre silenziosa, viveva ritirata in un’ala isolata del palazzo. Trascorreva una vita rigida e quasi monastica. Abitava stanze decisamente scialbe, senza fronzoli e decorazioni e trascorreva il suo tempo a pregare e a dialogare con il Signore Gesù.

Re Carnevale, amatissimo da tutti, organizzava sovente balli in maschera: erano serate di gran festa, piene di cibo, baldoria e travestimenti di ogni tipo. C’era chi indossava tute rattoppate di rombi colorati, chi abiti da dama e chi parrucche e rossi nasi da clown. C’erano fantasmi e pirati, brighelle e balanzoni, chi rispondeva al nome di Pulcinella e chi a quello di Pantalone. Tutti amavano prender parte a quelle feste, ma non Quaresima.

I bambini adoravano il palazzo del re: lì potevano giocare, urlare e fare innumerevoli scherzi che altrove non erano consentiti. Carnevale aveva una stanza piena di festoni e pile accatastate di cartoncini colorati. I bambini trascorrevano ore e ore a ritagliare in piccoli pezzetti la carta verde e rossa, gialla, arancione e con un pizzico di oro. “Si chiamano coriandoli – raccontava loro il re – e daranno gioia a ogni momento triste della vostra vita. Basta lanciarli in aria e sarà subito festa!”.

Quando i piccoli lasciavano il castello per far ritorno a casa, raccoglievano manciate di coriandoli e li infilavano in piccole ampolle di vetro che il monarca regalava loro. “Quando sarete tristi – diceva – quando le cose non andranno come dovrebbero. Quando vi ammalerete, o quando dovrete affrontare un momento difficile. Quando vedrete la mamma e il papà preoccupati per qualcosa, aprite queste ampolle e gettate un pugno di allegria nel velo d’ombra delle vostre giornate: tutto comincerà a brillare e tutto ritornerà magicamente al suo posto. I coriandoli sono magia contro ogni avversità e rappresentano l’allegria che si nasconde sotto alla scorza dura della vita. Il Bene che vince sempre sul Male”.

Quanto era goloso, re Carnevale, ma anche talmente generoso da dispensare leccornie a destra e a manca. Per i piccoli visitatori c’erano sempre muffin e pancake, creme ai frutti di bosco e frullati alla gianduia con fragoline e tanta panna montata. E ancora, caramelle, girelle al cioccolato, frittelle e ogni genere di golosità. Anche durante i banchetti delle feste in maschera gli adulti avevano a disposizione tanto, tantissimo buon cibo: timballi di pasta e intingoli a base di carne, dolci e frappe che venivano consumati fra innumerevoli chiacchiere e risate. Prelibati cibi che venivano preparati dagli instancabili cuochi di corte, manicaretti e canapés, gelati, gelatine e tanto buon vino.

A poco a poco, però, gli allegri sudditi cominciarono ad approfittarsi della generosità del re dal cuore buono. Tanta benevolenza aveva dato loro alla testa. Durante le serate danzanti, approfittando delle maschere che indossavano, cominciarono a derubarlo di oggetti preziosi e a far bottino nelle dispense della sua grande cucina: portavano via cibo e ingredienti esotici. Cominciarono persino a deriderlo perché era grande e grosso, con il naso sempre rosso a causa del buon vino che beveva in allegria. Di lì a poco presero a circolare caricature del re divenuto improvvisamente vecchio, brillo, raffigurato con bottiglie vuote ai piedi, i calzoni stretti, i bottoni che saltavano e giacche rattoppate. Un dispiacere enorme per il povero Carnevale che ben presto decise di non uscire più dal suo palazzo, per paura di essere deriso. Si rintanava a qualsiasi ora in cucina, e mangiava e beveva, per dimenticare ogni infamità ricevuta.

“Il cibo è il miglior rimedio a ogni dispiacere, cara Marilù – disse un giorno alla fedelissima cuoca, che conosceva tutti i segreti del suo signore e lo viziava con manicaretti e ogni prelibatezza.

“Lo so, signore – rispose la donna preoccupata – Ma se continua a mangiare in questo modo si ammalerà. I vestiti si rattoppano, se ne comprano di nuovi, se ne cuciono di più comodi. Ma con la salute non si scherza e mangiare così tanto può soltanto portare a dolori e malattie“.

“Non esagerare, Lulù – esclamò divertito, con un vezzeggiativo che la cuoca adorava – Dai portami ancora polpette, e vino e quella buonissima torta al cioccolato e miele. Che male può farmi una piccola scorpacciata?”

Passavano i giorni e Carnevale continuava a ingozzarsi, lasciandosi andare a una sconosciuta solitudine e a un accenno di depressione. Di tanto in tanto i piccoli sudditi del regno andavano a trovarlo per gettargli addosso i coriandoli che avevano a lungo conservato nelle ampolle e per donargli attimi di spensieratezza. Un pomeriggio la piccola Ingrid, vestita da streghetta, Flavietto, con un raccapricciante trucco da mostro, Paola e Chicca, mascherate da fata turchina e ragnetto, e tanti altri bimbi si recarono da lui con le ampolle di coriandoli e dolcetti. Gli offrirono torte e confetti e gli gettarono addosso numerosi ritagli di carta colorati. Carnevale sorrise e per un attimo ripensò a ciò che aveva ripetuto spesso: “I coriandoli sono un tocco di allegria contro le ombre della vita. Sono il Bene che vince sul Male”. Eppure, quando i piccoli mascherati lasciarono il palazzo, riprese a disperarsi e a divorare cibo. Diventava sempre più grosso, il volto paonazzo, il ventre si gonfiava.

Quaresima soffriva nel sapere che il fratello era ridotto in simili condizioni. “Ha vissuto con la presunzione che la vita fosse una eterna festa senza rendersi conto che non bisogna mai eccedere e oltrepassare i sani confini del divertimento e dell’allegria”. E pregava, pregava tanto per lui, perché amava tanto quel fratello così bizzarro, dal cuore grande e generoso.

Un sabato il sovrano toccò il fondo. Era una fredda giornata d’inverno e abusò di tutto il cibo che era presente nelle dispense e in cantina. Dolci e capretti interi, salsicce e cotiche, persino baccalà con i fagioli, forse la vera causa dei forti dolori di pancia. Cominciava a rendersi conto che la sua ingordigia gli aveva rovinato la salute. “Lulù aveva ragione, temo – pensò, in preda alle coliche e alle grosse fitte di dolore – Che qualcuno mi aiuti!” – urlò, preso dal panico.

Subito la voce risuonò nell’intero palazzo e in ogni strada e vicolo del regno. Sua sorella sperò di convincerlo al pentimento, ma Carnevale non si pentì affatto: aveva vissuto la vita che desiderava vivere ed era certo che sarebbe guarito. E se guarito non fosse, sarebbe morto felice di aver goduto dei tanti piaceri che la sua esistenza fatta di eccessi gli aveva offerto.

I sudditi, pentiti per il male che avevano inflitto al monarca, provarono a prendersi cura di lui: a turno cominciarono ad assisterlo, alternando terapie a base di infusi, intrugli e antichi rimedi delle nonne. Ma nulla. Anche i bambini andarono a trovarlo. Al bagliore fioco e caldo dei camini accesi, avevano ritagliato tanti piccoli coriandoli, aiutati dalle amorevoli e pazienti mamme. Pezzetti di carta dai mille colori che quella sera furono lanciati sul letto del re, il quale subito riprese a sorridere dimenticando, per un lungo momento, i dolori che gli causavano tanta sofferenza. Quaresima rimase a lungo al suo capezzale: magra e sofferente, tutta vestita di nero, sembrava fuori luogo in quella stanza piena di allegria e baldoria.

Il medico andò via con una sentenza triste e amara: non restava molto da vivere al re Carnevale. Il suo fegato era quasi totalmente a pezzi e il pesante corpo non avrebbe retto per più di due o tre giorni.

“Perché hai voluto osare così tanto, fratellone mio? – piangeva sommessa la povera Quaresima.

“Ho vissuto felice, in allegria e ilarità, e nulla potrebbe farmi pentire di nulla – rispose con difficoltà il re – Tu, sorella del mio cuore, sei un esempio di devozione e remissione, quello che io non ho mai perseguito e alla mia morte diventerai regina di questo regno. Sono certo che saprai fare il meglio per la nostra gente. Ma ora, per favore, ho un ultimo desiderio”.

“Di cosa si tratta? Sono qui e non ti lascerò solo un minuto” – fece singhiozzando la gracile donna dagli occhi mesti e pieni di lacrime.

“Mangiare, bere e mangiare ancora” – rispose il re con un leggero ghigno sulle labbra – Sono gli ultimi istanti della mia vita e voglio andarmene nel modo che più mi piace. Manda a chiamare tutti i bambini del posto e di’ loro che quando morirò dovranno far festa e mascherarsi in mio onore. Non c’è da piangere, desidero andar via con i festeggiamenti più sfrenati”.

A malincuore, Quaresima accettò la proposta del fratello maggiore. Era contro ogni logica, per lei, quel comportamento bizzarro. Eppure amava troppo Carnevale per non accontentarlo un’ultima volta. Nei giorni successivi, il sovrano mangiò come non mai e tutti i sudditi, tristi e pentiti per il comportamento scorretto che avevano avuto nei suoi confronti, festeggiarono nei giardini del castello. Era felicità pura per il monarca sofferente, erano attimi di Bene che vinceva sul Male. I bambini si travestirono con abiti sgargianti dai mille colori, e lanciarono coriandoli, stelle filanti, suonarono trombette, risero, fecero girotondi, cantarono a squarciagola.

Carnevale morì nel primo pomeriggio del martedì, giorno che dai sudditi venne chiamato Martedì Grasso, per il tanto cibo che il monarca ingerì. Eppure la festa non volse al termine, proprio come il sovrano aveva desiderato. I sorrisi in parte si spensero, l’ilarità un poco svanì, ma i coriandoli continuarono a volare ovunque, sospinti da forti ventate di aria fredda. Un gran corteo funebre accompagnò il re nel passaggio alla vita eterna. Amici e parenti erano in lacrime, la lunga processione era formata da personaggi travestiti da diavoli, con tanto di forche, adulti in maschera, bimbi che non smettevano di lanciare pezzettini di carta colorata. Si sentiva una musica triste che annunciava il funerale di Carnevale, accompagnato dall’allegria delle trombette suonate dalle piccole mascherine. Sulla bara giaceva una grande croce carica di cibo: formaggi e salami, barrette di cioccolata, prosciutto e cavolfiori.

Sin dall’ultimo respiro esalato dal re, Quaresima divenne regina. Il giorno successivo, cosparse cenere di foglie di olivo benedette sulla fronte di ogni suddito, e per questo venne definito Mercoledì delle Ceneri. Fu il primo atto di un regno completamente diverso, austero, improntato al pentimento e alla remissione. Quaresima decise di risollevare l’economia del Paese bandendo ogni forma di sfarzo e goliardia. Messi da parte i colori eccentrici, limitato il divertimento, richiamò i suoi sudditi al lavoro duro e alla devozione, e diede vita a un lungo regno retto in nome del sacrificio. Il castello perse ogni luminosità ed eccentrico addobbo, e divenne un luogo in cui si lavorava sodo.

I bimbi, che sovente avevano fatto festa nel palazzo del vecchio re Carnevale, impararono subito l’importanza di divertirsi senza esagerare mai. “Giocate, ballate, cantate e saltellate, piccole e allegre mascherine – diceva loro la nuova regina – Riempite le case e la vostra esistenza di coriandoli e allegria, ma ricordate di non sconfinare mai, perché il giusto dosaggio degli ingredienti della vita, come il divertimento e il dovere, la musica e il silenzio, la festa e il riposo, fa in modo che tutto proceda sempre al meglio”.