Era il 27 agosto 1950, il giorno in cui lo scrittore piemontese Cesare Pavese, a 42 anni, venne trovato morto in una stanza d’albergo torinese. Era depresso da tempo, in preda a un profondo disagio esistenziale, tormentato dalla recente delusione amorosa con Constance Dowling. Fu subito chiaro che si fosse trattato di suicidio, avendo ingerito oltre dieci bustine di sonnifero. Sul suo comodino lasciò un libro che stava leggendo, e su una delle pagine il messaggio scritto di suo pugno: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. All’interno del libro era inserito un foglietto con tre frasi vergate da lui: una citazione dal libro, “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”, una dal proprio diario, “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”, e “Ho cercato me stesso”. Dieci giorni prima di togliersi la vita scrisse su un diario “Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò” e il 18 agosto chiuse il suo diario scrivendo: “La cosa più segretamente temuta accade sempre… Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. In quel momento, il mondo della letteratura perse uno degli esponenti di maggiore rilievo del Neorealismo, uno dei più grandi intellettuali italiani della prima metà del secolo scorso, vincitore del Premio Strega proprio nel 1950.
Pavese è stato uno degli intellettuali più impegnati politicamente. Protagonista della Resistenza antifascista, fu poi coinvolto nelle prime iniziative culturali della neonata casa editrice Einaudi di Torino, fondata nel 1933. Quando aderì anche al movimento Giustizia e Libertà, fu arrestato. Si dimise dall’incarico all’Einaudi e incominciò a prepararsi per affrontare il concorso di latino e greco, ma il 15 maggio la sua casa fu perquisita e fu accusato di antifascismo, coinvolto nella repressione perché all’epoca frequentava Tina Pizzardo, iscritta al Partito Comunista.
Maestro di stile e assoluto mentore della letteratura italiana, ecco cosa scrisse l’8 novembre 1938: “Non si può conoscere il proprio stile, e usarlo. Si usa sempre uno stile preesistente, ma in un modo istintivo che ne plasma un altro attuale. Lo stile presente si conosce solo quando è passato e definitivo e si torna a scorrerlo interpretandolo | cioè chiarendosi come è fatto. Ciò che stiamo scrivendo è sempre cieco. Se ci viene bene (se cioè dopo, ritornandoci, lo stimeremo riuscito) non possiamo per il momento sapere. Semplicemente lo viviamo e va da sé che le astuzie, gli accorgimenti che vi spendiamo, sono un altro stile composto in precedenza, estraneo alla sostanza di quello attuale. Scrivere è consumare i cattivi stili adoperandoli. Ritornare sul già scritto per correggere è pericoloso: si giustapporrebbero cose diverse. Dunque non c’è tecnica? C’è, ma il nuovo frutto che conta è sempre un passo avanti sulla tecnica che conoscevamo e la sua polpa è quella che ci nasce via via sotto la penna a nostra insaputa. Che noi conosciamo uno stile, vuol dire che ci siamo resa nota una parte del nostro mistero. E che ci siamo vietato di scrivere d’or innanzi in questo stile. Verrà il giorno in cui avremo portato alla luce tutto il mistero e allora non sapremo più scrivere, cioè inventare lo stile”.
Giornalista