L’Epifania è certamente la festa più dolce che ci sia, e non è un modo di dire. Caramelle, bastoncini di zucchero e cioccolatini piovono dalle canne fumarie dei più piccini, ricordandoci che un nuovo anno scolastico e lavorativo stanno ufficialmente iniziando. Il Molise, come sempre, sa come onorare le tradizioni.
Innanzitutto è la terra delle tradizioni legate al fuoco che rievoca la rinascita, la vita, il Sol Invictus, che ricorrono costantemente a Natale, durante la Vigilia. Tra queste, le ‘ndocce e la faglia. Già in passato, in questa piccola e affascinante terra si accendevano fuochi per riscaldare Gesù Bambino, intorno ai quali si riunivano i giovani dei piccoli paesi che davano fuoco a i ‘rrutelle, le “rotelle”, le quali venivano fatte rotolare lungo i pendii delle montagne oppure gettate nelle acque dei laghetti o dei fiumi vicini. Erano queste le occasioni più adatte in cui venivano pubblicamente annunciati i fidanzamenti: intonate canzoni augurali e canti di questua, si offrivano e si ricevevano doni, si poneva fine a questioni o dispute pendenti con lo scambio di gesti di pace. In Molise, inoltre, vi era la credenza che se una nubile avesse sognato un ragazzo durante la notte dell’epifania, questi sarebbe diventato il suo sposo. Ecco spiegato il motivo per cui, prima di andare a dormire, le nubili facevano una preghiera di buon auspicio: “Pasqua Bbefania, Pasqua buffate, manneme ‘nsuonne quille ca Die m’ha destinate“.
Un’altra caratteristica legata all’Epifania molisana è quella della Pasquetta, un canto di auguri e di questua in uso in diverse località della regione la notte della vigilia della Befana. Sappiamo che la Pasqua di Resurrezione è la maggiore festa della cristianità; ho tenuto a chiamarla di Resurrezione per contrapporla alle altre Pasque: la Pasqua di Natale o di Natività, la Pasqua Fiorita, ossia la Domenica delle Palme, la Pasquetta o Pasquarella, lunedì in Albis, la Pasqua delle Rose, o rosata, ossia la Pentecoste, la Pasqua del Corpo di Cristo o Corpus Domini, la Pasqua dei Santi, che cade il 1 novembre. E non dimentichiamo la Pasqua dell’Epifania: “N Pasqua Epifania tutte i feste pigliene vie”.
È probabilmente dall’Italia centrale che arriva la tradizionale Pasquetta, il canto augurale e di questua di origine laica, simile alla carnevalata, una vera befanata che vede come protagonisti la Befana, suo marito il Befano, il conte del Buonumore e altri personaggi minori. Un canto augurale, dunque, che entra nei canti delle questue, come le maitunate della notte di San Silvestro, in cui i cantori augurano la buona Epifania, anzi la buona Pasqua, da vedersi come sinonimo di festa, felicità, fortuna. In alcune strofe del canto, i cantori affidano il compito di chiedere doni ai padroni delle case in cui bussano la porta e si esibiscono, per lo più cibo e bevande, ai padroni di casa. Uno dei canti più noti è quello registrato a Campobasso nella fine dell’Ottocento, in cui i cantori, per chiedere da bere alla padrona di casa, si esibirono in interminabili doppisensi: “E tu patrona tu, vattelo a piglia… E tu patrona tu, vattelo a piglia… E tu patrona tu, vattelo a piglia… lu vine buone. E se nen tiè i bicchieri, dacce la buttiglia! E se nen tiè buttiglia, dacce lu vecale! E se nen tiè vecale, dacce lu varjle! E se nen tiè varjle, dacce la votte! E se nen tiè la votte, vatt’a fa’ fotte!”
La Pasquetta molisana è un appuntamento tradizionale molto recente, attestata per la prima volta alla metà del Novecento. Quella di Toro, un piccolo borgo in provincia di Campobasso, è tra le più moderne e certamente tra le più suggestive. in cui cori maschili o misti risuonano durante la vigilia dell’Epifania, in piazza del Piano e davanti alle chiese del paese, quindi davanti alle case di amici o parenti. Si tratta di dieci quartine di ottonari a rima baciata, in lingua italiana: le prime nove narrano la visita dei Re Magi a Gesù Bambino, la decima augura la buona Pasqua ai padroni di casa e agli astanti, ma non va oltre gli auguri, astenendosi da ogni tipo di richiesta, ossia di questua. Una narrazione che si snoda su una melodia cantata da due voci, dello stesso tono, dopo una introduzione realizzata da uno strumento solista, come la fisarmonica, che non manca mai. Ma nella strutturazione dell’orchestrina non mancano mai nemmeno l’organetto, la chitarra, u bufù, ‘a streculatóre, l’acciarino. Un rito che normalmente, in passato, non andava più in là della mezzanotte e che vedeva il suo epilogo con un abbondante banchetto offerto dai padroni delle case ospitanti. Da qualche anno si va avanti a cantare a notte inoltrata, fino al mattino del 6 gennaio, quando il canto viene ripetuto per l’ultima volta durante la prima messa nella chiesa del convento, assumendo così una connotazione religiosa, o ancor meglio liturgica, caratterizzandola rispetto a quella tipica molisana.
Giornalista