Secondo l’OCSE, la provincia di Benevento è un’area significativamente rurale. Fasce montane e aree agricole, zone collinari e clima mite caratterizzano un territorio dal significativo impianto agreste con una totale vocazione nei confronti dell’agricoltura. A occhio nudo, la distesa della provincia sannita è una grande macchia verde, in cui la coltivazione della terra padroneggia. Piccoli borghi sfruttano le risorse rurali e crescono poggiandosi su un’economia che predilige la terra, puntando, altresì, sul turismo lento che prende sempre più piede. Dalla Diga di Campolattaro alle tante aree naturalistiche, dall’efficientamento degli edifici pubblici al potenziamento dell’asse ferroviario, fino all’ammodernamento tecnologico e alla conseguente diffusione della banda ultra larga con i collegamenti in fibra: ecco alcuni degli atti propulsivi in ambito agricolo che fanno della provincia di Benevento un territorio invidiabile.
Il comparto vitivinicolo è certamente quello che più caratterizza la ruralità sannita. Le viti dominano e sovrastano le bellezze rurali della zona, specialmente nelle aree tra il massiccio del Matese e il Taburno, e dalle pendici del Taburno al fiume Calore. I vigneti sanniti si estendono in meravigliosi scenari, interrotti qua e là da altre colture e abitazioni. Alcuni di questi hanno piante ultracentenarie. Le viti sono il segno inequivocabile dell’identità culturale e sociale dell’intera comunità sannita. Quasi undicimila gli ettari di terreni vitati, circa ottomila imprenditori vitivinicoli, un centinaio di aziende imbottigliatrici ed etichettatrici, per la produzione di oltre un milione di ettolitri di vino prodotto, tre denominazioni di origine e una indicazione geografica e più di sessanta tipologie di vini. Migliaia di aziende impegnate nella produzione di uva, 160 cantine con più di duemila lavoratori. Aglianico, Solopaca, Camaiola, Sommarello, Piedirosso, Agostinella, Falanghina, Coda di volpe, Malvasia, Palombina, Moscato di Baselice, sono solo alcuni esempi del patrimonio viticolo sannita.
Dopo la coltivazione della vite, ecco la secolare coltivazione degli ulivi. Proprio nella regione Campania questa tradizione risale a epoche molto lontane nel tempo, ricordando i Greci e i Fenici che diffusero l’uso dell’olio in tutti i territori colonizzati, come alimento e come ingrediente di unguenti e profumi. La cosmesi a base d’olio, infatti, era rinomata e apprezzata da persone di ogni ceto sociale: da agricoltori e contadini, alle persone più umili, che spesso utilizzavano l’olio per curare le callosità e idratare la propria pelle dopo lunghe e intense giornate al lavoro, sotto al sole o al freddo spesso gelido, fino a regine e nobili, dai quali “l’oro giallo” veniva visto come un vero e proprio prodotto di lusso. I Romani, poi, ne favorirono la coltivazione, soprattutto nella provincia di Benevento. “Iuvat olea magnum vestire Taburnum” cioè “conviene rivestire di oliveti il grande Taburno”, sosteneva Virgilio nelle Georgiche, tanto che l’olivo, già presente nel Sannio dal VI sec a.C., si diffuse rapidamente, come documentano i numerosi reperti conservati nei vari musei provinciali. Ancora oggi l’olio d’oliva è alla base dei migliori prodotti naturali cosmetici, come saponi artigianali, creme e unguenti.
La saragolla è un’antica varietà di grano duro, ancora oggi coltivata nelle aree interne del Sannio, in provincia di Benevento. Un cereale che fu introdotto in Italia dal Medio Oriente nel 400 d.C. da alcune popolazioni provenienti dalla attuale Bulgaria. Il suo nome deriva dall’unione di sarga (seme) e golyo (giallo). Sono tanti i documenti storici in cui è citata, molti di questi del periodo medievale. Il Sannio beneventano, assieme all’Abruzzo e alla Lucania, è una delle poche zone in cui si continua a coltivare la saragolla, che è riuscita comunque a sopravvivere alla competizione con i grani duri introdotti dal Nord Africa e dal Medio Oriente, ma è pur vero che lo spopolamento della zona e la riduzione delle superfici coltivate hanno messo in crisi la produzione sia del grano, sia del pane. Quest’ultimo è un prodotto tipico derivante dal cereale dal caratteristico colore giallognolo, il profumo intenso e i suoi richiami alla ruralità più antica.
Olio extravergine di oliva, vini e saragolla, ma anche ortaggi e frutta da cultivar tradizionali, e cereali, tartufi, ed erbe officinali. Ecco l’esempio di Cautano e della patata interrata, la cui produzione lenta ed esclusivamente a mano, senza alcuna irrigazione, è la caratteristica di un meraviglioso tubero che nasce e cresce tra le foglie di felce. Le patate vengono raccolte con la prima luna calante di settembre e poi si ripongono sotto strati di foglie di felce e terreno, a copertura della fossa. Si interrano e si conservano nei mesi freddi, dopo averle fatte preventivamente asciugare in grotta o in cantina per qualche giorno, passaggio utile per l’ispessimento della buccia. La raccolta definitiva avviene tra fine febbraio e aprile, quando il tubero germogliato è pronto per essere messo a dimora. A proposito di patate, non dimentichiamo quelle di alta collina di Santa Croce del Sannio: lì, in mezzo alla splendida natura incontaminata, l’unico concime utilizzato è il letame proveniente da allevamenti di animali tenuti allo stato semi brado. Si tratta di un prodotto al 100% di altissima qualità che nasce in una zona in cui non vi sono piante infestanti, né parassiti; solo insetti, formichine e coccinelle.
Rinomata la produzione di cipolle rosse ad Airola, che dal rischio di estinzione è divenuta presidio Slow Food. Ma per quale motivo la cipolla caudina è scomparsa? La causa è da cercare negli anni Settanta, quando con l’introduzione e la diffusione del tabacco moltissime famiglie ne hanno abbandonato la produzione per il nuovo prodotto, lavorabile con sistemi meccanizzati, che garantiva una maggiore redditività. La cipolla è un simbolo di Airola, tanto che uno dei murales che si trovano nelle vie della città raffigura la preparazione della cena, con una donna che affetta, appunto, il prezioso bulbo di cui il centro caudino si fa vanto. Grazie alla vicinanza dei corsi d’acqua Tesa e Faenza, che rilasciano nutrimento organico senza però renderli acquitrinosi, si sono create le condizioni favorevoli per la coltivazione di una cipolla pregiata per la sua sapidità e dolcezza, mai pungente. Il settore del tabacco si colloca tra le principali aree di produzione a livello nazionale. Il Sannio, del resto, è stato per decenni uno dei maggiori produttori italiani, sia per quantità che per qualità, impegnando migliaia e migliaia di ettari per un prodotto che veniva esportato persino a Cuba. Numerosi, nell’intera provincia, gli opifici che lavorano il tabacco, finché, con la riduzione degli aiuti comunitari e le limitazioni al consumo di sigarette, il comparto, che dava lavoro anche a 15mila addetti, è andato in crisi.
La mela annurca. Un frutto che nel 2006 ha ottenuto il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta), rendendo famosa la città di Sant’Agata che utilizza il frutto in tanti modi diversi. Non solo da mangiare dopo il pasto, ma anche ingrediente numero uno per molti piatti, dalla carne al ripieno per i dolci, fino al liquore ricavato dal suo estratto. La proprietà più nota della mela annurca è certamente l’efficacia nel contrastare livelli alti di colesterolo: sembra essere in grado, infatti, di ridurre di circa il 30% il colesterolo totale e, al tempo stesso, di incrementare i livelli di quello buono (HDL), anche del 60%. Questa capacità sembra essere dovuta all’elevatissimo contenuto di un gruppo di polifenoli molto superiore rispetto a quello che si riscontra in qualsiasi altro cultivar di mela. Inoltre, la mela annurca ha un elevato potere antiossidante, utile a mantenere in salute organi e tessuti, contrastando efficacemente l’invecchiamento cellulare, e a proteggere l’apparato cardiovascolare. L’acido ossalico che contiene la rende molto utile per la salute della bocca, svolgendo un’azione di pulizia che aiuta ad avere denti bianchi. Ancora, ha ottimi benefici anche sull’intestino, sia per per l’alto contenuto di fibra, sia per la presenza di cellulosa nella buccia, che favorisce la digestione. La mela annurca, inoltre, sostiene la funzionalità renale, soprattutto in caso di calcolosi, favorendo in tal senso l’eliminazione dell’acido urico. Inoltre, il consumo regolare favorisce e stimola la diuresi, rappresentando pertanto un ottimo alleato contro i reumatismi.
Nell’area di Ceppaloni, invece, primeggia la valorizzazione del tartufo bianco. Il termine tartufo deriva dal latino terrae tufer, escrescenza della terra dove tufer sta per tuber: è certa la sua antichissima presenza presso i popoli mediterranei, e le prime notizie compaiono nell’opera Naturalis Historia di Plinio il Vecchio da cui si evince che il tuber fosse molto apprezzato sulla tavola dei Romani e che, probabilmente, lo avevano conosciuto dagli Etruschi. I Babilonesi già lo conoscevano nel 3000 a.C. e vi sono testimonianze della sua presenza anche nella dieta dei Sumeri e al tempo del patriarca Giacobbe, intorno al 1700 a.C.: dalla Mesopotamia si estese anche in Grecia, e fu proprio qui che nel I secolo d.C. il filosofo Plutarco di Cheronea formulò la fantasiosa ipotesi secondo la quale i tartufi sarebbero stati generati dalla combinazione di acqua, fuoco e i fulmini scagliati da Zeus in prossimità di una quercia, albero a lui sacro. Tale leggenda venne poi ripresa anche dal poeta Giovenale. E ancora: la lenticchia sannita, il fagiolo risillo, il fico lardaro o troiano, il grano arso, il pomodoro guardiolo, l’origano del Matese, la pera carmosina, il peperone quarantino, la pesca poppa di Venere, l’uva Salamanna e l’uva sanginella. Il Sannio, a quanto pare, a tavola non si fa mancare nulla.
Giornalista