Immagini dal Sannio: il Chronicon vulturnense, il codice di San Vincenzo al Volturno

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In copertina, un codice del Chronicon.
Foto di repertorio

Chronicon non vuol dire fare un freddo resoconto o una cronaca asettica. Chronicon deriva dal latino chronica e dal greco χρόνος, ed è una forma di narrazione storica che segue il criterio della cronologia ma anche della semplicità. Chi è appassionato di storia molisana, di archeologia benedettina, di fatti medievali, delle radici della fede dell’area del Volturno, non può non aver mai sentito parlare del Chronicon vulturnense, cronaca del monaco Giovanni di cui non si hanno notizie certe, redatta nel XII secolo, intorno al 1130 presso l’abbazia di San Vincenzo al Volturno, in provincia di Isernia, scritta in latino e tratta delle vicende storiche del monastero dalla fondazione nel VII secolo sino all’anno 1115. Dal latino medievale, il codice è stato tradotto integralmente in italiano dalla professoressa Luisa De Luca Roberti, e il testo è stato revisionato dal professore Massimo Oldoni dell’Università La Sapienza di Roma e dal professore Federico Marazzi dell’Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli.
Si venne a conoscenza di tale prezioso codice miniato nel 1567 quando l’abate Cesare Costa, di San Vincenzo, in una missiva indirizzata a Carlo Borromeo, annunciò l’importante ritrovamento. Un manoscritto in scrittura beneventana, un codice che oggi è conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, cod. Barb. lat. 2724, composto di 341 carte in pergamena, numerate due volte in tempi diversi: la prima volta, in cifre romane, risalente al XIII secolo, e la seconda in cifre arabe, per mano e ingegno di Costantino Caetani.

Secondo treccani.it, “nel disegno dell’autore l’opera doveva essere suddivisa in sette libri, ognuno scandito da un momento fondamentale della storia del monastero. Il primo libro avrebbe quindi narrato gli avvenimenti compresi tra la fondazione e la costruzione del San Vincenzo Maggiore a opera dell’abate Giosuè (792-817); il secondo le vicende successive, fino al saccheggio saraceno (881); il terzo sarebbe stato dedicato alla memoria dei novecento monaci decapitati in occasione del disastro saraceno; il quarto sarebbe stato il libro dell’esilio, del successivo ritorno al luogo delle origini e sarebbe giunto fino all’abbaziato di Maraldo (1007-11); il quinto avrebbe raccontato le opere dell’abate Ilario (1011-44), fino alla trasmigracio della comunità sull’altra sponda del Volturno e alla definitiva rovina degli edifici antichi; il sesto avrebbe glorificato l’opera restauratrice del già citato abate Gerardo e del successore di questo, Benedetto (circa 1109 – post 1117). Il libro finale, il settimo, sarebbe stato dedicato all’abate Amico (post 1117-1139), ultimo committente della cronaca vulturnense. Così, attraverso la partizione in sette periodi, il passato della comunità era ambiziosamente accostato alla genesi del mondo e alle successive età dell’uomo. Tuttavia, la compilazione del Chronicon appare, nella forma in cui è stata trasmessa, una raccolta confusa di materiali confezionati in momenti molto diversi. Tradizioni varie, poco o per nulla elaborate, confluirono nell’opera senza dar vita a un racconto armonico e strutturato, ponendo evidentemente gravi ostacoli a una chiara esegesi del testo, che si interrompe verso la metà del quinto libro. D’altro canto proprio il giustapporsi di tradizioni diverse rende il Chronicon una fonte preziosa per capire come sia stato elaborato, nelle varie fasi di vita del monastero, il tema della nascita della comunità vulturnense”.

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno.
Foto di Gino Petrangelo

Il monaco Giovanni intese unicamente redigere la cronaca per riordinare le memorie dell’antico cenobio benedettino in un momento molto particolare, durante il quale il patrimonio monastico era minacciato dalla presenza dei Normanni. Ed è grazie a esso se fino a oggi è stato possibile ricavare tantissime informazioni inerenti allo studio del monastero di San Vincenzo al Volturno, fondato da tre nobili beneventani, Paldone, Tasone e Tatone, conosciuti come Paldo, Taso e Tato, che desideravano chiudersi in una vita fatta di meditazione e contemplazione, e per tal motivo si recarono presso l’Abbazia di Farfa, in provincia di Rieti, dove l’abate Tommaso di Morienna aveva suggerito loro di fondare un cenobio lungo le rive del Volturno. Progetto sostenuto dalla Chiesa di Roma e dal duca di Benevento.
La leggenda narra che l’abbazia sia stata visitata da Carlo Magno e che fu protagonista di uno scontro aspro tra monaci longobardi fedeli al proprio duca e monaci favorevoli invece ai franchi, finché fu lo stesso Carlo Magno a far prevalere e a favorire questi ultimi che provvidero a potenziare il cenobio, provvedendo alla costruzione di una grande chiesa. Essa, nel susseguirsi dei tempi, ha dato interessanti testimonianze della cultura e della fede dell’intera valle. Il cantiere di scavo archeologico abbaziale è condotto dall’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, con il sostegno del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e in collaborazione con la Soprintendenza ABAP e il Polo Museale del Molise. Grazie all’imperterrito lavoro degli archeologi si è avuta testimonianza che non si trattasse solo di un monastero, ma che fosse anche un vero quartiere produttivo, nel quale venivano conservati forni per vetri, laterizi e metalli. Il sito archeologico da più di vent’anni rappresenta un fiore all’occhiello per studiosi e ricercatori dell’Università Suor Orsola Benincasa ed è da considerarsi come luogo unico in Europa per la conoscenza del patrimonio storico-artistico altomedievale.