Immagini dal Sannio: le Forche Caudine, la resa dei Romani sotto al giogo dei Sanniti

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In copertina: le Forche Caudine, raffigurazione del giogo.
Immagine di repertorio

Oggi viaggiamo un po’ lontano nel tempo e arriviamo alla memoria storica delle Forche Caudine, che ancora oggi inorgoglisce ogni sannita. È questo, infatti, un evento certamente infausto per i Romani, sconfitti da quel valoroso e fiero popolo guidato da Gaio Ponzio che costrinse l’esercito più forte al mondo a passare sotto al famoso giogo. Un evento che sconvolse non poco la fierezza del popolo proveniente dalla capitale del mondo, i cui militari si marchiarono, da quel momento, di infamia. Tito Livio ne parlò come di una resa, senza alcun combattimento, perché altrimenti sarebbero tutti morti.
Andiamo con ordine. Quello dei Sanniti era un fiero popolo dedito prettamente alla pastorizia, stanziato nella fascia centro meridionale dell’Italia antica, un vero e proprio blocco fra le terre tirreniche e quelle adriatiche dell’Apulia. Tra l’altro, conoscevano molto bene la montagna in cui vivevano, gli Appennini, su cui lasciavano pascolare i propri armenti. Alla fine della I guerra sannitica, nel 341 a.C., i Sanniti ottennero la pace dai Romani promettendo di rimanere neutrali nelle continue battaglie fra Roma e i popoli vicini. Tuttavia, la loro indole bellicosa li spinse, nel 327 a.C., a rompere i trattati appoggiando i Palepolitani, cittadini di Parthenope, futura Neapolis, territorio che si trovava fra il Vesuvio e l’area vulcanica dei Campi Flegrei. Nel 322 a.C. i Sanniti furono sconfitti dai Romani e costretti ad accettare delle condizioni alquanto umilianti: la consegna di Brutulo Papio come istigatore dell’insurrezione, di tutte le sue ricchezze e la restituzione dei prigionieri. Da quel momento, l’esercito sannita sperò invano di poter riottenere lo status di alleati. Roma, non fidandosi, non concesse l’alleanza. Gaio Ponzio venne nominato comandante dei Sanniti l’anno successivo e Livio, nell’Ab Urbe condita lo definì “patre longe prudentissumo natum, primum ipsum bellatorem ducemque” ossia “figlio di un padre famoso per la grande saggezza, e lui stesso combattente e stratega di prim’ordine“.

Molte le trattative di pace che seguirono mentre l’esercito romano era ancora stanziato nel Sannio, precisamente vicino a Calatia, l’attuale abitato di Maddaloni. Gaio Ponzio si accampò segretamente presso Caudium, l’attuale Montesarchio, inviando da lì una decina di soldati, travestiti da pastori, per farsi catturare dai Romani, che giravano il territorio per sorvegliare e depredare bestiame e viveri per la truppa. Questi raccontarono ai Romani che l’esercito sannita stava assediando Luceria, in Apulia, città alleata di Roma, e i consoli decisero ovviamente di accorrere in aiuto dell’alleata. Erano due le strade per raggiungere Luceria: una di queste, la più lunga, costeggiava l’Adriatico, l’altra attraversava Caudium.
Siamo proprio alle Forche Caudine, una stretta gola fra due versanti molto ripidi, zona non di facile accesso. Quando questi ultimi si incamminarono, senza pensare di mandare qualcuno in avanscoperta, ecco che scoprirono gli sbarramenti dei Sanniti e notarono i nemici sulle alture circostanti. Appena provarono a tornare indietro, trovarono un altro sbarramento. Se i soldati fossero stati lasciati andare, si sarebbe potuto contare sulla gratitudine di Roma; se l’esercito romano fosse stato distrutto, Roma non avrebbe potuto riarmarsi in breve tempo e i Sanniti avrebbero potuto vincerla definitivamente. “Tertium nullum consilium esse”, disse Livio: non vi era una terza soluzione.

I consoli romani si resero conto della gravità della situazione e chiesero ai Sanniti una pace equa oppure che si schierassero per la battaglia in territorio aperto, in modo da dimostrare quale fosse l’esercito più coraggioso e capace. Gaio Ponzio, invece, pose delle condizioni: li avrebbero fatti passare sotto il giogo, disarmati, vestiti della sola tunica, e il ritiro dell’esercito dal territorio dei Sanniti e quello delle colonie ivi mandate. In seguito, Romani e Sanniti avrebbero vissuto ciascuno con le proprie leggi in giusta alleanza. Alla fine i Romani accettarono, una resa. Probabilmente “Furono fatti uscire dal terrapieno inermi, vestiti della sola tunica: consegnati in primo luogo e condotti via sotto custodia gli ostaggi. Si comandò poi ai littori di allontanarsi dai consoli; i consoli stessi furono spogliati del mantello del comando. Furono fatti passare sotto il giogo innanzi a tutti i consoli, seminudi; poi subirono la stessa sorte ignominiosa tutti quelli che rivestivano un grado; infine le singole legioni. I nemici li circondavano, armati; li ricoprivano di insulti e di scherni e anche drizzavano contro molti le spade; alquanti vennero feriti ed uccisi, sol che il loro atteggiamento troppo inasprito da quegli oltraggi sembrasse offensivo al vincitore“. Da quel momento i legionari romani subirono la subjugatio, ossia il passaggio sotto il giogo, cioè fra due lance confitte in terra, una sospesa orizzontalmente a queste ultime: lo sconfitto, nudo, doveva passarvi sotto, inchinandosi, in presenza dell’esercito nemico. Totalmente nudi e con molte allusioni di disprezzo e sessuali a cui furono costretti ad andare incontro. Ovviamente i Sanniti si sentivano vestiti di grande gloria.

L’accerchiamento dell’esercito romano in una mappa di Alessandro Ferrante

Nella storia romana questo è l’unico esempio di un intero esercito consolare che subisce un simile affronto. L’esercito invincibile dei Romani abbandonò così la valle e partì alla volta di Capua, pieno di vergogna per l’affronto subìto. I Capuani si mossero a compassione e subito inviarono ai romani aiuti di ogni genere, offrendo la più calorosa ospitalità. Cibo, vestiti, armi, ecco come gli abitanti del luogo omaggiarono i Romani che erano alquanto preoccupati per il loro rientro in città. Alla notizia, infatti, a Roma vennero chiuse botteghe, sospese le attività del Foro, e vi furono delle tipiche manifestazioni luttuose. Qualcuno addirittura propose di non far rientrare i vinti nell’Urbe. Ciò non accadde, ma in ogni caso i soldati si rinchiusero in casa con le proprie famiglie per la paura e la vergogna di mostrarsi in pubblico. E per secoli l’episodio delle Forche Caudine fu il simbolo della eterna umiliazione, di una grave sottomissione al nemico,

E se volessimo localizzare le Forche Caudine effettivamente dove dovremmo andare a cercare? Ecco cosa ci dice Wikipedia: “Per localizzazione delle Forche Caudine si intende l’identificazione del luogo dell’accerchiamento, della successiva resa e dell’umiliazione che i Romani subirono da parte dei Sanniti durante la seconda guerra sannitica nel 321 a.C.: un problema della storiografia su Roma antica cui non si è data una risposta unanimemente accettata, anche se viene ampiamente preferita l’ipotesi che colloca l’evento fra i comuni di Arienzo ed Arpaia. Il primo a scrivere sull’argomento è stato Flavio Biondo nel XV secolo; sono seguiti i pareri di parecchi altri studiosi, in particolare dalla fine del XVII secolo. Sono svariate le aree fra le città di Caserta e Benevento che vorrebbero fregiarsi di essere il luogo dell’episodio. Per tale motivo, alle opinioni che danno gli storici in proposito si accompagnano discussioni parziali, inasprite dai campanilismi”. 
Arienzo, Forchia e Arpaia sono comuni che si trovano sulla via Appia. L’opinione più diffusa fra gli storici attuali è che le Forche Caudine abbiano avuto luogo nella stretta di Arpaia, valico dell’Appennino Campano, situata fra i monti Tairano e Castello. Notevoli sono stati i ritrovamenti archeologici sul posto: su entrambe le gole vi sono possenti resti di murazioni di epoca sannitica, che possono quindi essere stati il luogo del praesidium e le alture da cui, stando al racconto di Livio, i Sanniti derisero i Romani. Sono stati ritrovati, altresì, resti di armi e pietre sferiche che fanno pensare ai residui di una catapulta.

Fonti: Theodor Mommsen, Storia di Roma;
Tito Livio, Ab Urbe condita libri;
E.T. Salmon, Samnium and the Samnites;
Wikipedia alla voce Forche Caudine.