Il Poverello Francesco d’Assisi fu il primo cristiano nella storia della chiesa a essere segnato dalle impronte della passione del Signore nel suo corpo. Quelle stimmate che gli restarono impresse fino alla morte, avvenuta la sera del 3 ottobre 1226 a Santa Maria degli Angeli. Una vita vissuta nell’umiltà, o meglio nel voler diventare umile e simile a Cristo per la sua radicale scelta di vita evangelica, tanto da diventare anche anche fisicamente il riflesso vivente di Cristo. Si racconta che due anni prima di morire San Francesco si trovasse alla Verna, un monte selvaggio, un “crudo sasso” come fu descritto da Dante Alighieri, un monte che s’innalza verso il cielo, nella valle del Casentino. Era andato lì perché gravi tensioni si erano accese nell’Ordine, così il Santo desiderò allontanarsi, in ritiro spirituale. Vi giunse per per vivere in solitudine quaranta giorni di digiuno e preghiera in preparazione alla festa dell’Arcangelo Michele di cui era fortemente devoto. Francesco era particolarmente legato a questo luogo, ne era molto affascinato e qui trovava la forza e l’ispirazione giusta per meditare la Passione del Signore e innalzare l’intensa preghiera: “O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione, la seconda si è ch’io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori” (dai Fioretti). Invocazione che non rimase inascoltata.
Dopo una notte di preghiera, ricevette misteriosamente sul proprio corpo i segni visibili della Passione di Cristo: le mani, i piedi e il costato furono trafitti. Secondo la tradizione era il 14 settembre 1224. Un prodigio che fu talmente mirabile che i pastori e gli abitanti dei dintorni riferirono ai frati di aver visto per circa un’ora il monte della Verna avvolto di un vivo fulgore, tanto da temere un incendio. San Bonaventura, suo biografo, raccontò che quella mattina, “nell’appressarsi della festa dell’Esaltazione della santa Croce, mentre pregava sul fianco del monte, vide la figura come di un serafino, con sei ali tanto luminose quanto infocate, discendere dalla sublimità dei cieli: esso, con rapidissimo volo, tenendosi librato nell’aria, giunse vicino all’uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l’effige di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi e confitti sulla croce. Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si stendevano a volare e due velavano tutto il corpo. A quella vista si stupì fortemente, mentre gioia e tristezza gli inondavano il cuore. Provava letizia per l’atteggiamento gentile, con il quale si vedeva guardato da Cristo, sotto la figura del serafino.
Ma il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima con la spada dolorosa della compassione. Fissava, pieno di stupore, quella visione così misteriosa, conscio che l’infermità della passione non poteva assolutamente coesistere con la natura spirituale e immortale del serafino. Ma da qui comprese, finalmente, per divina rivelazione, lo scopo per cui la divina provvidenza aveva mostrato al suo sguardo quella visione, cioè quello di fargli conoscere anticipatamente che lui, l’amico di Cristo, stava per essere trasformato tutto nel ritratto visibile di Cristo Gesù crocifisso, non mediante il martirio della carne, ma mediante l’incendio dello spirito”. In seguito, si potevano scorgere sul corpo del Poverello non i fori dei chiodi, ma i chiodi stessi formati di carne di colore del ferro al centro delle mani e dei piedi, mentre il costato era imporporato dal sangue.
Giornalista