Il 21 agosto 1911, la Gioconda, o Monna Lisa, celeberrimo dipinto di Leonardo da Vinci, dalle connotazioni misteriosi ed enigmatiche, fu rubata da un imbianchino italiano dal museo del Louvre di Parigi. Per il mondo italiano, francese, e in tutti gli angoli della terra appassionai di beni artistici, fu un grandissimo shock e la polizia francese impiegò ben due anni per riportare la famosissima tavola nelle stanze del museo parigino. A compiere il furto fu Vincenzo Peruggia, un imbianchino di 30 anni originario di Varese, emigrato in Francia, che si creò prima un alibi perfetto trascorrendo la sera precedente al furto in compagnia di amici, a suonare il mandolino al Cafè Rubichat, nel quartiere italiano di Parigi, e a simulare un’ubriacatura. Poiché l’uomo lavorava in una ditta che faceva manutenzioni per il Louvre, e potendo entrare e uscire dalla struttura come meglio credeva, di notte, conoscendo a menadito gli ambienti del museo, passò davanti al custode in sonno e si diresse sicuro verso il Salon Carré che custodiva, tra le altre, opere di Raffaello, Tiziano, Giorgione. Staccò il quadro, nascose la tavola sotto il cappotto e uscì come se niente fosse. Alle 8,30 il furto fu compiuto e l’uomo si diresse in taxi all’appartamento che condivideva con un cugino, dove nasconde con cura la preziosa refurtiva. Al museo si accorsero del furto soltanto il giorno dopo, dato che inizialmente si era avanzata l’ipotesi che fosse stato rimosso per fotografarlo. Furono Louis Beroud e Frederic Laguillermie, un pittore e un incisore, a far scattare l’allarme. Inizialmente, le indagini non portarono a nulla e la polizia non aveva molte piste da seguire. Fu in questo periodo che il mito della Monna Lisa divenne importante, raggiungendo le fasce più popolari, anch’esse incuriosite dalla storia di questa donna e del suo misterioso sorriso.
Vincenzo Peruggia, originario di Dumenza, cittadina nei pressi di Luino, era convinto che il dipinto appartenesse all’Italia e non dovesse quindi restare in Francia e per questo lo rubò con l’intenzione di restituirlo o meglio regalarlo all’Italia. Peruggia, infatti, credeva erroneamente che l’opera fosse stata rubata durante le spoliazioni napoleoniche mentre è risaputo che fu Leonardo stesso a portare con sé in Francia, nel 1516, la Gioconda che potrebbe essere stata poi acquistata assieme ad altre opere da Francesco I. Più tardi Luigi XIV fece trasferire il dipinto a Versailles, ma dopo la rivoluzione francese venne spostato al Museo del Louvre. E così il Peruggia, dopo aver trafugato il dipinto e averlo tenuto nascosto per due anni, nel 1913 lo portò in Italia nascosto in una valigia piena di biancheria sporca e con la massima ingenuità si recò a Firenze per rivendere l’opera per pochi spiccioli, rivolgendosi all’antiquario fiorentino Alfredo Geri con una lettera firmata “Leonardo” in cui era scritto “Il quadro è nelle mie mani, appartiene all’Italia perché Leonardo è italiano” e una proposta di restituzione a fronte di un riscatto di 500 mila lire.
L’11 dicembre 1913 l’antiquario fissò un appuntamento nella stanza 20 dell’Hotel Tripoli in via de’ Cerretani, albergo che poi cambiò il nome in Hotel Gioconda, accompagnato dal direttore degli Uffizi Giovanni Poggi. I due capirono immediatamente che l’opera non era uno dei tanti falsi in circolazione, ma l’originale e se la fecero consegnare per “verificarne l’autenticità”. Ciò permise alle autorità di rintracciare Peruggia e arrestarlo. Il ladro in seguito venne processato e, dopo essere stato dichiarato “mentalmente minorato”, fu condannato a una pena di un anno e quindici giorni di prigione, poi ridotti a sette mesi e quindici giorni. Un aneddoto ci racconta di quando, anni prima del furto, portò la moglie Annunciata a visitare il Louvre e, fermo davanti alla Gioconda, disse: “Marciranno le tegole del tetto ma il mio nome rimarrà scolpito nei secoli”. La sua difesa si basò tutta su un fervido principio di patriottismo e riuscì anche a suscitare qualche simpatia. Come egli stesso dichiarò, trascorse due anni “romantici” con la Gioconda appesa sul suo tavolo di cucina.
Giornalista