Il 26 marzo 1942, presso il campo di concentramento di Auschwitz, fu aperta anche una sezione femminile, poi collocata in un settore di Auschwitz-Birkenau denominato BI. In tutto furono immatricolate ufficialmente circa 405.000 persone, di cui 32.000 donne, ma dato che molte migliaia di deportati non furono registrati, è difficilissimo stabilirne il numero complessivo reale. Le internate, in genere, erano obbligate a lavorare nelle industrie che, in quantità crescente, vennero aperte nei pressi del campo di sterminio. Furono recluse anche donne Rom, di nazionalità polacca o slave, donne attive nella Resistenza al nazifascismo in ogni paese e donne con disagi fisici o psichici prelevate dagli istituti in cui erano ricoverate. Furano ammassate oltre i limiti della sopravvivenza per giorni sui treni speciali, o su camion coperti, di mattina presto, al freddo e al buio, quando non c’era in giro nessuno. Trattando i dati sulla Shoah, emergono molteplici informazioni sul destino degli uomini nei campi; per quanto riguarda le donne le testimonianze sono minori: le madri separate dai figli; le figlie deportate insieme alle madri, senza la possibilità di aiutarsi; le donne che divennero madri in lager, che si affannavano ad allattare quei figli che presto avrebbero visto assassinare o morire di stenti; le vittime degli esperimenti chirurgici; le donne costrette alla prostituzione. “Nel lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa” ha dichiarato Liliana Segre, deportata nel lager femminile di Auschwitz-Birkenau all’età di tredici anni.
Alle donne nei campi di concentramento venivano consegnati vestiti maschili, mutande senza elastici, calze che si ripiegavano sulle gambe. Nei primi mesi, quando il ciclo mestruale ancora si riproponeva, non esisteva materiale per tutelare l’igiene; successivamente, a causa della scarsa alimentazione, della qualità del cibo e dell’estenuante lavoro, il flusso si bloccava per la maggior parte delle prigioniere: una delle prove che la femminilità scompariva. Il corpo perdeva le sue forme originali e si trasformava in uno scheletro di vecchia. Dai reparti femminili erano inoltre selezionate le donne destinate ad allietare il personale di guardia, gli internati criminali comuni e in generale gli uomini di razza ariana; erano donne tedesche, ucraine, polacche o bielorusse, ma non italiane o ebree, ritenute contaminanti per il loro sangue non ariano, tutte sotto i 25 anni di età, indotte a prostituirsi dopo un periodo di violenze e stupri, con la promessa, mai mantenuta, della concessione della libertà dopo sei mesi di “lavoro”.
Nonostante la prigionia, i maltrattamenti, la separazione dai propri cari, la fatica, il degrado, si continuò a tentare di preservare almeno la dignità di persone: molte internate crearono gruppi di mutua assistenza che permisero loro di sopravvivere grazie allo scambio di informazioni, cibo e vestiario; alcune donne furono leader o membri di organizzazioni della Resistenza all’interno dei campi di sterminio. Spesso le donne appartenenti a questi gruppi provenivano dalla stessa città o dalla stessa provincia, avevano lo stesso livello di istruzione o condividevano legami familiari. Altre donne furono in grado di salvarsi perché le SS le trasferirono nei reparti destinati al rammendo degli abiti, nelle cucine, nelle lavanderie o nei servizi di pulizia. Milioni di donne furono perseguitate e uccise durante l’Olocausto. Tuttavia, alla fine non fu tanto la loro appartenenza al genere femminile a farne dei bersagli, quanto il loro credo politico o religioso, oppure il posto da loro occupato nella gerarchia razzista teorizzata dal Nazismo
Giornalista