Era il 7 marzo 1965 quando papa Montini, Paolo VI, nella parrocchia di Ognissanti sull’Appia Nuova a Roma durante la sua omelia disse: “Straordinaria è l’odierna nuova maniera di pregare, di celebrare la Santa Messa. Si inaugura, oggi, la nuova forma della Liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo. È un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo” […] “questa domenica segna una data memorabile nella storia spirituale della Chiesa, perché la lingua parlata entra ufficialmente nel culto liturgico”.
Con il Sacrosantum Concilium dunque, venne autorizzato da Paolo VI l’uso della lingua italiana durante la Messa dopo secoli di latino. Non stava mutando la fede in ciò che si stava compiendo sull’altare, la Santa Messa era sempre la stessa, ma qualcosa faceva giustamente pensare alla novità. Nella continuità della tradizione della Chiesa ci si proponeva di rinnovare le forme del dialogo degli uomini con Dio. Non un mutamento della fede, ma della forma. Il Vaticano II, che aveva come scopo quello di promuovere la vita cristiana tra i fedeli, si occupò della divina liturgia e chiese che i fedeli fossero aiutati a prendere parte alla liturgia “consapevolmente, attivamente e piamente”. Ecco che la semplificazione dei riti e l’uso delle lingue nazionali diventavano scelte necessarie e proficue. I riti, secondo il Vaticano II, dovevano evitare l’inutile prolissità ed essere in generale facilmente comprensibili e l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, si conservava nei riti latini.
Giornalista