Oświęcim o Auschwitz è una cittadina della Polonia sud Occidentale al confine con la Germania, dove il clima è sempre umido. Nel 1940 fu lì scelta dai nazisti una caserma abbandonata dell’esercito polacco che poteva essere riutilizzata a uno scopo distruttivo: ospitare uno dei primi campi di concentramento, dato che era isolata dalla cittadina e lontana da occhi indiscreti. A giugno del 1940 arrivarono i primi prigionieri, una trentina di criminali comuni tedeschi, che sarebbero stati i primi kapò della struttura; poco dopo arrivarono dei detenuti polacchi, accolti a bastonate e insulti. Non si può descrivere in poche righe e con freddezza l’orrore di quegli anni. Vogliamo pensare alla fine, specie in questi giorni, al 27 gennaio 1945 in cui le truppe sovietiche entrarono nel campo di sterminio, mettendo fine alla più truce e orrenda prigionia mai concepita dalla mente umana.
Se è stata istituita una Giornata per non dimenticare e per non ripetere, gli italiani sono molto allenati a questo esercizio della Memoria grazie al racconto di Primo Levi, uno dei più grandi scrittori del Novecento, in Se questo è un uomo. Negli ultimi capitoli, Levi racconta la fine nazista, che inizia con la terribile marcia forzata organizzata dei superstiti ancora sani.
“E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo i due italiani, e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano le parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati”. Primo prese la scarlattina pochi giorni prima, e malato venne messo nella baracca degli infettivi. Poteva sembrare una disgrazia, invece fu una delle sue fortune.
I nazisti evacuarono il campo e portarono la maggior parte dei detenuti a morire nella neve, fuggendo l’Armata Rossa. Chi si trovava malato a letto vide l’inizio di una surreale fase finale della vita di Auschwitz. La fortuna nella tragedia. “A sera, dopo la prima zuppa distribuita con entusiasmo e divorata con avidità, il grande silenzio della pianura fu rotto. Dalle nostre cuccette, troppo stanchi per essere profondamente inquieti, tendevamo l’orecchio agli scoppi di misteriose artiglierie, che parevano localizzate in tutti i punti dell’orizzonte, e ai sibili dei proiettili sui nostri capi. Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. Svegliai quelli tra i malati che sonnecchiavano, e quando fui sicuro che tutti ascoltavano, dissi loro, in francese prima, nel mio migliore tedesco poi, che tutti dovevano pensare ormai di ritornare a casa”. E così fecero.
Giornalista