Non possiamo appropriarci di questa tradizione come fosse sannita, perché non lo è. Se vogliamo dirla tutta, dovremmo andare indietro nel tempo, di tanti e tanti e tanti secoli, e in un modo o nell’altro tutta Italia vi ricorre. Il Sannio beneventano, come gran parte della Campania (Napoli in primis), il Sannio molisano, e anche la vicina regione d’Abruzzo la sentono particolarmente radicata. Parlo della ‘nferta, che in Molise possiamo chiamare anche strina, o strenna. Cosa vuol dire ‘nferta? A ’nferta, dal verbo latino in-fero (porto dentro, porto verso) significa offerta, e nella lingua napoletana indicava l’elemosina, la carità, quella che si chiedeva nelle strade affollate dalle persone fragili e in difficoltà. In un secondo momento il termine indicò il canto messo in atto da giullari, cantastorie e musicanti ambulanti, dedicato al proprio pubblico durante il giro di questua. Una poesia d’occasione in musica, potremmo tranquillamente dire. che per la sua lunghezza somiglia molto a una sceneggiata. Il canto intonato viene solitamente portato nelle case di paesi o rioni di città nella notte di capodanno: squadre di cantori, in costumi d’epoca, portano note e allegria benaugurante, in cambio dell’offerta della questua da parte della famiglia ospitante, oltre alla speranza di vedersi il prossimo anno in condizioni di salute e benessere sempre maggiori.
Le strenne, invece sono i regali natalizi o che comunque caratterizzano il periodo festivo del Natale, che è tipico anche del giorno di capodanno: un regalo ben augurante per l’anno in entrata. Come dicevo prima, un’usanza che si perde nei secoli antichi, da attribuire ai Romani, i quali il primo gennaio invitavano a pranzo i propri amici, scambiandosi un vaso bianco con latte e miele, datteri e fichi, e gli immancabili ramoscelli di alloro. La parola strenna la si deve al fatto che i rami venivano staccati da un boschetto della via sacra a Strenia, dea di origine sabina, che aveva uno spazio verde a lei dedicato sul Monte Velia. Strenia era apportatrice di fortuna e felicità. La strenna, a detta di Varrone, fu istituita a Roma già dalla prima fondazione dell’Urbe quando Tito Tazio, sovrano sabino e poi re di Roma, per primo colse il ramoscello della pianta arbor felix, posta nel bosco sacro alla dea Strenia, come buon augurio. Ecco, da questa abitudine nacquero le strenae, regalo benaugurante, scambio di doni che si usa fare ancora oggi.
Nelle zone sannite, la strina (strenna) o ‘nferta (il cui nome varia di dialetto in dialetto) è un augurio che viene fatto dai più piccoli ai nonni, o comunque a parenti e conoscenti più grandi, nella giornata di capodanno. Una tradizione che forse non è più vissuta come un tempo, ma che pure resiste. Venivano portati, dai piccoli di casa solitamente ai propri nonni, ramoscelli di ulivo e di alloro. L’ulivo, si sa, ha il sacro significato della pace. L’alloro, utilizzato anche in cucina, o in campo medico, fu simbolo di sapienza, anticamente pianta sacra ad Apollo. La corona di alloro era la corona dei poeti (Petrarca docet), e ancora oggi viene utilizzata dai neolaureati (da cui il termine laurea). Un tempo l’alloro incoronava persino gli imperatori. e comunque tutte le più alte istituzioni o i vincitori di gare e certami. Ecco, dunque, il significato di prosperità, abbondanza, creatività e raccolta di buoni frutti, ma anche sapienza e buona e lunga vita, Con il passare del tempo, oltre ai ramoscelli di ulivo e alloro, si è passati ad altri tipi di doni, come la frutta, da vedere nella sua umiltà e nell’attaccamento alla terra e alle radici. Finché, ahinoi, si è arrivati a doni “commerciali, chiamati proprio streniarum commercium, proprio come gli antichi Romani avevano previsto. Nei giorni d’oggi, al dono delle palme o dell’alloro, ma anche della frutta, datteri e fichi, e talvolta di dolcetti, in cambio si riceve il motivo principale della questua, ossia un regalo in denaro.
Giornalista