Un bel sabato di sole dopo lunghi giorni di pioggia e freddo intenso. Sepino si trova proprio lì, ai confini tra due regioni politiche, ma nel bel mezzo della regione Sannio. Fa capolino un raggio di sole, si fa spazio tra nuvoloni e una coltre di nebbia che piano piano si dirada. Qualche famiglia con bimbi a seguito, in tenuta da neve, doposci e merende al sacco chiacchiera e racconta. “Quella doveva essere la basilica, quella invece era la porta”. Siamo in provincia di Campobasso, alle falde del Matese, nel Sannio pentro, a sud della zona Peligna e a nord di quella Irpina. Sepino fu dapprima roccaforte sannita con il nome Saipins, poi prese il nome latino Saepinum, quando divenne una piccola città romana, e solo nel medioevo assunse il nome di Altilia. Fu edificata nei primissimi anni del I secolo d. C. e ancora oggi non è stata ancora completamente scavata. Cosa si nasconde sotto il selciato che sto calpestando, sotto manti erbosi che si alternano a pavimentazioni rocciose? Quanto ancora c’è da raccontare? Certo è che qusto gioiellino è perfettamente conservato, un monile prezioso della storia romana che ebbe un’importante espansione nel momento in cui divenne luogo di villeggiatura termale.
Molto probabilmente, i primi insediamenti risalgono alla preistoria e proprio il corso del fiume Tammaro incentivò la nascita di agglomerati abitativi, sia pure di dimensioni modeste, oltre che di innumerevoli tratturi. Siamo in piena zona in cui le reminiscenze della transumanza ci riportano a quelle memorie passate che ci legano a radicate e forti tradizioni pastorali, E come tutte le popolazioni sannitiche dislocate lungo l’Appennino dell’Italia centro–meridionale, gli abitanti di Saepinum erano legati a pastorizia e agricoltura. “Montani atque agrestes”, li definì Livio. Lavoravano lana e pelli di pecora, molto utilizzati soprattutto per vestirsi, mentre usavano le pelli bovine, caprine ed equine, più robuste, per realizzare calzature, cinghie, selle, scudi, foderi, otri e recipienti. Utilizzando i due principali percorsi tratturali, Pescasseroli-Candela e Castel di Sangro-Lucera, i pastori trasferivano le greggi, durante il periodo invernale, dalle zone montuose dell’Abruzzo e del Molise ai pascoli di pianura della Daunia, la Puglia settentrionale. D’estate veniva effettuato il percorso inverso, trasferendo le greggi dal Tavoliere pugliese nei pascoli sugli altipiani.
Già alla fine del II sec. a.C., dopo che un grave incendio devastò l’agglomerato urbano, vi fu una rapida ripresa edilizia che determinò un salto di qualità nella struttura urbanistica e uno sviluppo economico e sociale della comunità. Fu così che Saepinum si fregiò del ruolo di Municipium, quale riconoscimento dell’urbanizzazione del centro. Più tardi, subì irruzioni di Visigoti e domini Longobardi, fino all’arrivo dei Normanni. Nel 1846, in una lettera del 14 marzo, Theodor Mommsen, il più grande classicista del XIX secolo, parlò di Altilia così: “Tutto l’agro è ancora intatto, tutte le porte della città, una di esse ha ancora l’arco intero… Il teatro in Altilia è ben conservato, la strada principale è ancora lastricata da enormi pietre, è completa, ci sono molti mucchi di pietre delle quali è riconoscibile la loro provenienza da edifici e templi e, quanto altro sta nella terra è indescrivibile! Macerie ed iscrizioni sono sparse dovunque… come dappertutto vi sono colonne. È questo un luogo unico!”
Le mura e le torri della città, costruite dai figli adottivi di Augusto, Tiberio e Druso, delimitano un’area quadrangolare di circa dodici ettari, costituita dal cuore della vita pubblica:ecco il Foro, e la Basilica coi suoi pilastri, il tribunale, il comitium, la curia, il tempio e un’aula per il culto imperiale. E poi le fontane, la fullonica, a metà tra una lavanderia e una tintoria, il macellum, mercato della carne e del pesce, le terme, il teatro, le botteghe e le abitazioni.
Entrando da porta Bovianum si percorre il decumano e si arriva al Foro in cui è presente un’iscrizione che ricorda i nomi dei magistrati che, a loro spese, ne curarono la pavimentazione. La porta monumentale Bovianum era strumento di protezione dei cittadini che abitavano al suo interno ma anche luogo in cui chi passava, mercanti, allevatori, contadini, pastori, era tenuto a pagare un dazio. Le altre porte sono la Benevento, la Tammaro e la Terravecchia; le quattro porte non presentano caratterizzazioni diverse fra loro, se si eccettuano le figure delle divinità rappresentate in funzione tutelare nelle chiavi di volta degli archi. Il teatro è perfettamente conservato: costituito dalla scena e dalla platea e, considerate le ventotto gradinate conservate, poteva ospitare presumibilmente fino a tremila persone. Oggi, nelle vicinanze, è stato allestito l’Antiquarium, un museo in cui sono disposti in ordine cronologico tutti i reperti frutto degli scavi. La Basilica, punto iniziale della mia visita, la prima struttura da me fotografata, in pianta rettangolare, con una lunga serie di colonne, era nell’antichità un edificio polivalente nelle sue funzioni di pratiche commerciali e attività giudiziarie e, in epoca imperiale, anche attività religiose collegate al culto dell’Imperatore. Le Terme sono l’edificio più esteso e ancora non del tutto scavato; si suppone, infatti, che le zone tipicamente termali, come il calidarium, frigidarium, praefornium, siano ancora interrati e ciò che è visibile sia solo l’ingresso. La fontana del Grifo è così chiamata per la raffigurazione che conserva.
È ancora possibile passeggiare tra edifici che conservano molte delle caratteristiche originali: non solo Foro, ma anche l’antico mulino, le botteghe e le abitazioni private. Le mura reticolate sono realizzate con il calcare del Matese, tagliato in blocchetti minuti e sagomati a forma di piccole piramidi, a base quadrata o rettangolare. All’esterno delle mura, sono conservati due mausolei funerari, come da tradizione romana. Un gran bel pezzo di storia alle porte del Molise.
Giornalista