Riti e tradizioni della bella Primavera

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“Primavera non bussa, lei entra sicura” cantava Fabrizio De André e allora non ci resta che prepararci a festeggiarla. Certamente, dovremo accontentarci di vederla fiorire dai nostri balconi di casa, questi giorni di emergenza coronavirus non ci permetteranno di goderne appieno con passeggiate tra la natura, o raccogliendo fiorellini. Quest’anno l’equinozio di primavera cade proprio oggi 20 marzo, esattamente è avvenuto questa mattina alle 9:37. Per cento anni, salvo sporadici casi, l’equinozio di primavera cadrà il 20 di marzo.

Il termine equinozio deriva dal latino aequinoctium: è l’unione delle parole aequusuguale, e noxnotte. Il significato è facilmente intuibile: esprime il momento in cui la durata del giorno è la stessa di quella della notte, coincidenza dovuta a un fenomeno astronomico, ovvero quando il sole, durante la rivoluzione terrestre, si trova allo zenit dell’equatore e i suoi raggi colpiscono perpendicolarmente l’asse di rotazione del nostro pianeta. Presso gli antichi popoli, l’Equinozio possedeva una valenza molto importante. La terra ritrova la sua fertilità, la luce prevale sull’oscurità, e all’epoca questo rievocava il concetto atavico del trionfo della vita sulla morte. L’Antica Roma celebrava l’arrivo della primavera attraverso innumerevoli riti, tra cui quelli intitolati alla dea Flora, protettrice dei fiori in boccio, i cosiddetti Floralia. Quando la fioritura raggiungeva il suo apice, a fine aprile, inneggiavano alla fecondità tramite cerimonie bucolico-orgiastiche. Nel mondo ellenico, sin dal VII secolo a.C, il risveglio della natura veniva salutato con i Misteri Eleusini, suddivisi in una fase primaverile e in una autunnale: nella prima si celebrava il ritorno dall’Ade di Persefone, che sarebbe rimasta accanto a sua madre Demetra per tutta l’Estate. I Misteri erano intrisi di simbologia sul ciclo eterno di vita, morte, rinascita, ma una rinascita ultraterrena e non solo nell’accezione campestre.

In Egitto da circa 4700 anni si festeggia Sham El Nessim, la più antica festa di Primavera al mondo. Sham el Nessim letteralmente vuol dire “fiutare il vento”, e in Egitto cade il primo lunedì dopo la Pasqua copta. In questa occasione, strade e prati si riempiono di persone, coperte e colori per un picnic all’aria aperta, tra la brezza primaverile che, secondo la tradizione, rinvigorisce chi la respira. Pare, inoltre, che il giorno dell’Equinozio di marzo la grande Sfinge di Giza si allinei esattamente con il sole che sorge: un fenomeno che coinvolge altri noti monumenti come il Tempio di Angkor Wat in Cambogia, la piramide messicana di Chichén Itzà e i megaliti di Stonehenge, questi ultimi allineati con il levar del sole anche durante i solstizi. In questa giornata si consumano le uova, simbolo non solo del Cosmo, ma anche di rinascita.

L’Holi, nota anche come “festa dei colori”, è la versione induista della festa della primavera. In questa giornata, che simboleggia il trionfo del bene sul male, le differenze di caste si annullano; migliaia di persone scendono in piazza cantando, ballando e gettandosi addosso polveri di pigmenti coloratissimi, misti ad acqua. È proprio questo l’aspetto più caratteristico della festa di Holi che, grazie al mito, acquisisce un significato d’amore. Si narra, infatti, che il dio Krishna, che aveva la pelle scura, fosse invidioso di quella bianca della moglie Radha e per questo, un giorno, la dipinse con dei colori. Da qui è nata l’usanza delle coppie innamorate di sporcarsi a vicenda il viso come segno d’affetto.

Una tradizione antichissima che risale alla dinastia cinese Tang, portò in Giappone diverse tradizioni e costumi, tra cui quello di godere della bellezza dei fiori di primavera. Fu allora che il termine Hanami divenne sinonimo di “ammirazione dei fiori di ciliegio”. Per i giapponesi, infatti, l’inverno che se ne va è sinonimo di rinascita, della bellezza della vita. Si festeggia con dei pic-nic a base di sushi, si consumano birra e sake all’ombra dei ciliegi, che sono simbolo di fragilità e rinascita, per poi continuare la festa di notte, quando Hanami diventa Yozakura, “la notte del ciliegio”.

Ostara, o Eostar, era invece il nome con cui i popoli germanici designavano Eostre, la dea pagana della fertilità: per i rituali in suo onore si provvedeva all’accensione di un cero, emblema della fiamma dell’esistenza, che le sacerdotesse lasciavano ardere nei templi fino all’alba. I Celti denominavano il mese che sanciva l’arrivo della primavera Eostar-monath, da cui derivarono poi l’inglese Easter e il tedesco Ostern, entrambi con il significato di Pasqua. Nel corso del tempo, le celebrazioni cristiane si sono sostituite a quelle pagane e, oltre a sovrapporsi alle loro date ne adottarono i simboli. Uno su tutti? Il sopra citato uovo, embrione primordiale che si riallacciava al mito della Fenice che, ciclicamente, risorgeva dall’uovo sorto dalle sue ceneri. I popoli dell’Egitto, della Persia e della Grecia antica erano soliti scambiarsi uova di gallina, non di rado sode e dipinte a mano, a mo’ di doni primaverili. Il Cristianesimo, guardando all’uovo come principio di vita della mitologia pagana, assurse la pietra rotolata via dal sepolcro di Cristo a emblema di risurrezione: una rielaborazione che, nei secoli e tramite sostanziali variazioni, avrebbe assunto le tradizionali sembianze dell’uovo di Pasqua.

In tutta Italia vengono ancora organizzati i cosiddetti Falò di San Giuseppe, quello che rimane di un’antica tradizione pagana. È un rito che simboleggia il passaggio dall’inverno alla primavera preparando un fantoccio, spesso una “vecchia”, alla quale si appicca poi il fuoco. In altri casi, la “vecchia” non viene bruciata ma decorata e riempita di cibo, solitamente collane di salsiccia e arance, accompagnate da frutta secca, e in seguito tagliata: le cibarie vengono poi distribuite fra tutti i bambini che hanno partecipato all’evento. Da nord a sud, i falò di San Giuseppe, sono tantissimi, ognuno con i propri riti e tradizioni. Nella Val di Trebbia, nel cuore del territorio delle Quattro province, ogni anno si festeggia la Festa di San Giuseppe con il Falò e con il rogo della “vecchia”, nel Lazio, a Itri, in provincia di Latina, decine di falò vengono accesi per tutto il paese con i rami degli alberi di ulivo appena potati, con concerti di musica popolare e degustazione di prodotti tipici locali sparsi per le vie della città. La tradizione dei fuochi è presente ancora anche nel borgo lucano di Viggianello, con il rito dei fucalazzi, enormi falò dove bruciare, assieme alla legna, tutto il negativo dell’inverno. Fuochi anche in Basilicata, in Molise e Puglia: a Serracapriola giovani e adulti raccolgono i ceppi dai campi, cioè i rami degli olivi secolari appena potati e ne fanno pire da accendere la sera del 19. Ma non è solo l’ulivo l’albero propiziatorio, in altri paesini si bruciano rami di pino o leccio e anche ginestre.