Dalla primavera all’autunno, da marzo a ottobre, è il momento giusto per riconoscerli e raccoglierli. Complici pioggia e umidità, i funghi, buffi e simpatici organismi viventi epigei dei nostri boschi, sono i protagonisti delle tavolate di festa, ma anche di pranzi e cene della quotidianità. Ne esistono più di 100mila, ma bisogna saperli riconoscere perché sono poche le specie commestibili: gli altri sono tossici o velenosi. Alcuni funghi, invece, sono formati da una sola cellula come lieviti e muffe. Possono essere macroscopici, detti anche macromiceti, o microscopici, ossia i micromiceti. Sembrano spuntare dal nulla sui terreni ma anche sui tronchi degli alberi, tra l’erba ma anche sulla sabbia delle spiagge marine. Sembra dunque che spuntino magicamente, e sovente vengono ritenuti proprio così, magici, anche a causa degli effetti allucinogeni che sin dai tempi antichi hanno scatenato la fantasia degli uomini e della letteratura, divenendo così protagonisti di credenze e leggende popolari. Alcune dicerie, per esempio, sostengono che i funghi che crescono in “cerchio” siano generati da danze notturne di streghe o di gnomi, il cosiddetto “cerchio delle streghe”.
Anticamente, in Cina i funghi venivano considerati simbolo di lunga vita, legati in qualche modo all’immortalità, dalle forti proprietà terapeutiche, ancor di più dei veri medicinali, ed erano impiegati anche per la produzione di liquori e tisane. Ciò valeva anche nell’antica Grecia, dove venivano considerati quale simbolo di vita, per cui divini. Una leggenda racconta dell’eroe Perseo che, dopo aver sostenuto un lungo viaggio, stanco e assetato, riuscì ad abbeverarsi con acqua raccolta nel cappello di un grande fungo. Questo fu il motivo per cui proprio lì decise di fondare la città di Micene, il cui etimo greco deriva da mykés, “fungo”, dando così origine all’antica civiltà micenea. Nella Roma classica, invece, il fungo era molto apprezzato a livello culinario, base essenziale della gastronomia dell’epoca. Eppure, a un certo punto per i Romani diventò simbolo di morte. Il termine infatti, significherebbe proprio “portatore di morte”, dal latino funus, “morte” e ago, “portare”. La leggenda, ad esempio, narra che l’Imperatore Claudio ne fosse talmente goloso che trovò la morte proprio a causa di tale debolezza. La moglie Agrippina, desiderando spodestarlo per vedere sul trono il figlio Nerone, lo avrebbe fatto avvelenare proprio con dei funghi velenosi. In ogni caso, anche oggi siamo circondati da credenze relative a questi organismi boschivi. Una delle tante dice che se sul gambo di un fungo c’è un ricciolo, nelle vicinanze c’è almeno un porcino.
Nell’autunno in corso, complice l’abbondante pioggia agostana e settembrina, alternata da giornate ricche di sole e poco ventilate, la Coldiretti ha annunciato che si è creato il clima ideale per una straordinaria proliferazione di funghi porcini. E proprio dai porcini voglio partire, in questo ricco e vario tappeto micetico che nei boschi matesini e del Monte Mutria troviamo. Il boletus edulis nasce proprio tra le montagne di Cusano Mutri, attorniato da querce, castagni, faggi e abeti. È questo il territorio perfetto in cui si forma e si moltiplica, gioia e vanto per gli abitanti e i visitatori del territorio. Il porcino è certamente il re dei funghi epigei, il più pregiato, con la sua carne che dopo la cottura diventa intensamente morbida. I suoi odori forti e decisi riportano ai boschi che li generano e nutrono, alle terre montane incontaminate in cui prendono vita. Gli antichi Romani chiamarono questo fungo Suillus, che letteralmente vuol dire proprio “porcino” (piccolo porco), dato l’aspetto tozzo e massiccio che lo caratterizza. I funghi porcini si presentano con un grande cappello marrone, che a volte arriva a raggiungere i 35 cm di diametro e i 3 kg di peso. Quelli freschi contengono circa l’80% d’acqua e un basso contenuto di grassi e carboidrati. Inoltre, vantano un apporto quantitativo superiore di proteine. Si possono mangiare sia crudi che cotti, in primi piatti, come risotti, zuppe, creme, polenta e paste asciutte. Accompagnano molto bene le pietanze a base di carne e talvolta si trovano anche accanto a crostacei come le mazzancolle. Ma i porcini sono ottimi accompagnatori anche di antipasti, insalate, bruschette e pizze, panini e toast.
Non solo porcini: dal punto di vista micologico, il Matese, con il suo habitat vario e diversificato, viene considerato uno dei territori più importanti in quanto a varietà e sapori. La primavera è la stagione in cui prende il via la raccolta delle varie specie. La fioritura di aprile, per esempio, viene accompagnata dalla specie Calocybe gambosa, il “fungo di San Giorgio” così chiamato proprio perché è in quel mese primaverile che viene celebrato il santo di cui porta il nome, conosciuto altresì come “prugnolo”, o “virno”. Il suo odore è molto intenso, eppure risulta gradevole al palato. Ha un bel colore che varia dal nocciola al bianco crema. Sempre in aprile o maggio è possibile la raccolta di altri tipi di funghi, come le “spugnole” data l’inconfondibile forma di spugna, carne fragile e odore leggermente di muffa, da ricercare dopo le prime piogge. Il fungo non è edibile crudo perché tossico. Sono tanti anche i funghi Agrocybe aegerita, i “pioppini”, che, come suggerisce il nome, crescono nei boschi di pioppo e salice, sui loro legni, lungo fiumi e torrenti e che sono considerati tra i migliori funghi commestibili. L’Associazione Micologica del Matese – A.Mico.Matese, nata dalla passione di Bernardo Picillo e altri colleghi, in questi anni sta lavorando tenacemente per promuovere e far conoscere tali risorse territoriali, anche allo scopo di promozione turistica e valorizzazione gastronomica e culturale. Grazie all’impegno associativo, unito a una forte passione, pochi anni fa si è giunti a riconoscere una nuova specie di fungo, il Rhodocybe Matesina, ritrovato nei pressi della Cipresseta di Fontegreca.
Il Matese e i boschi sanniti non offrono solo una grande e varia presenza di funghi epigei. Di tartufi, funghi ipogei data la crescita sotto terra e non in superficie, ce ne sono a bizzeffe. Il termine deriva dal latino terrae tufer, escrescenza della terra dove tufer sta per tuber, che nulla ha a che vedere con le patate. Molto presenti già anticamente presso i popoli mediterranei, le prime notizie compaiono nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, anche se testimonianze dimostrano la sua presenza anche nella dieta dei Sumeri e al tempo del patriarca Giacobbe, intorno al 1700 a.C.. Dalla Mesopotamia si estese anche in Grecia: fu qui che nel I secolo d.C. il filosofo Plutarco di Cheronea formulò l’ipotesi secondo la quale i tartufi sarebbero stati generati dalla combinazione di acqua, fuoco e i fulmini scagliati da Zeus in prossimità di una quercia, albero a lui sacro, leggenda in seguito ripresa anche dal poeta Giovenale. Il tartufo più famoso e diffuso è certamente quello piemontese di Alba, ma anche i terrotori del Sannio non sono da dimenticare, in quanto a produzione di questo raffinato frutto della terra.
Il Tartufo Nero del Matese è un Prodotto Agroalimentare Tradizionale (PAT) della Campania. La sua storia comincia nel 1797, all’epoca di Ferdinando IV di Borbone, che ne parla come “buoni e saporosi tartufi“. Cresce sulle montagne confinanti con la provincia di Isernia, a oltre 1.000 m.s.l.m., ha un caratteristico colore marroncino, più che nero, e si raccoglie da ottobre a marzo, a seguito di una rigida regolamentazione degli enti pubblici per evitare episodi di distruzione del sistema del Parco Regionale del Matese. Ha un sapore dolciastro e pungente, ottimo per la preparazione di salse, liquori e condimenti. Nell’area di Ceppaloni, invece, primeggia la valorizzazione del Tuber magnatum, il “tartufo bianco”, molto intensificata nell’ultimo decennio. Anche da San Pietro Avellana, in provincia di Isernia, e da tutto il Molise, arriva sulle tavole italiane circa il 35-40% del tartufo bianco, uno dei funghi più pregiati, spesso proposto con tagliatelle, trofie, tagliata di carne, bruschette e paté, grattugiato come si fa con il parmigiano o allo stato cremoso. Quali le differenze col tartufo nero? Il suo profumo è meno delicato e il sapore più intenso, leggermente piccante, con un contorno chiaro e irregolare. Il bianco predilige un tipo di terreno calcareo, con buona areazione ma molto umido, mentre il tartufo nero si trova prevalentemente in terreni con poca acqua e abbastanza asciutti. Il prezzo della versione bianca è decisamente più alto rispetto a quello del “collega” più scuro e anche in cucina solitamente si utilizza in maniera completamente differente: esso va affettato direttamente su un piatto ancora caldo, per far sì che vengano sprigionati i suoi aromi. Viene raccolto da settembre a gennaio.
Giornalista