Siamo a Guardia Sanframondi, in provincia di Benevento, Città del Vino e dei Riti Settennali di penitenza in onore dell’Assunta, rapiti da un prezioso e delizioso gioiello architettonico: la chiesa di San Sebastiano, a due passi contati da piazza Castello. Un vero e proprio scrigno che a primo acchito può sembrare anonimo, perché esternamente si presenta come una struttura semplice, sulla strada principale, che non dà affatto nell’occhio. Il portale in pietra arenaria, dal tipico aspetto rinascimentale, accoglie i visitatori nella chiesetta a unica navata. Ma al primo sguardo, già l’altare maggiore in fondo appare maestoso e luminoso come i marmi pregiati di cui si fregia, e da solo è considerato una vera e propria opera d’arte.
Il primo impianto della chiesa, nata come semplice cappella, sorse nel 1515 come luogo di preghiera dei membri della Confraternita di Santa Maria della Pietà. I confratelli l’abbandonarono nel 1535, quando i conciatori di pelle se ne appropriarono. In quel periodo, Guardia era rinomata nell’ambito della concia delle pelli, attività fiore all’occhiello e vanto del borgo del Sannio. Dapprima, nel XV secolo, una delle tante comunità di ebrei soggetti alla diaspora si stanziò in paese: la chiesetta fu sistemata all’esterno del centro abitato, nella zona della Portella, che divenne vero e proprio ghetto della città. Furono proprio questi facoltosi e motivati uomini a dare vita all’attività di conciatura, di cui si vantavano essere maestri, i cui procedimenti e la lavorazione utilizzata erano molto antichi e naturali.
La pelle organica non doveva marcire, piuttosto doveva essere privata dalla naturale possibilità di andare in stato di decomposizione, perché in seguito doveva essere lavorata per produrre indumenti. Gli animali venivano dapprima scuoiati, e dalla loro carne bisognava togliere ogni residuo di grasso. Si procedeva al processo di salatura, all’essiccamento e dopo tutto questo ciclo lavorativo c’era la vera e propria attività di concia. All’epoca, questo procedimento avveniva in vasche specifiche, piene di acqua e calce, miscela che permetteva la perdita dei peli rimasti. La concia finale, per mezzo di tannini del legno, portava alla fase ultima della lavorazione, in cui la pelle si trasformava finalmente in cuoio, che a volte veniva conservato nella colorazione naturale, altre volte sottoposto a tinteggiatura, e poi ingrassato per poter essere utilizzato. Il grasso residuo del processo di scarnatura veniva distribuito in beneficenza alle persone più povere, quale fonte di sostentamento, ma veniva altresì utilizzato come base per la produzione di saponi vegetali e cosmetici naturali, mentre i peli sottratti dalle pelli venivano adoperati per usi diversi, come l’imbottitura di cuscini, coperte, o anche per guanti e indumenti che proteggessero dal freddo.
A proposito del processo di scarnatura, il vico che oggi conosciamo come Vico dei Conciatori veniva chiamato la carnìcchia, proprio per la tipica lavorazione ivi effettuata. Nel tempo, l’attività di conciatura divenne estremamente importante, raggiungendo una imponenza impressionante che arrivò addirittura fuori ai confini del Regno, toccando persino i territori dell’oriente asiatico. Proprio fin laggiù, infatti, venivano esportati i prodotti degli artigiani guardiesi. Un fenomeno talmente imponente che diede vita all’appellativo Guardia delle sòle.
I guardiesi, tradizionalmente dediti all’agricoltura, in quel periodo misero addirittura da parte la consolidata attività rurale per dedicarsi alla più redditizia produzione di panni in pelle, con annesso commercio; l’attività divenne talmente fiorente che sorsero circa cento aziende del settore. Gli operai si erano ormai costituiti in una propria Corporazione, tanto da fondare una loro Banca affinché vi fosse sostegno economico verso chi vi si affiliava, e grazie alla quale riuscirono a costruirsi una propria chiesa, su impianto rinascimentale del 1515, dapprima attorno al ‘600, quando venne abbellita e restaurata un’antica tavola raffigurante San Sebastiano trafitto dalle frecce dei suoi stessi compagni pagani, in tipico stile manieristico, che si trovava sull’altare maggiore. In seguito, dopo il terremoto di fine Seicento, i conciatori, davvero ricchi e potenti, chiamarono illustri artisti a impreziosire l’edificio sacro.
Il monumento architettonico della chiesa di San Sebastiano, infatti, come tanti altri, subì la dura condanna del terremoto del 5 giugno 1688, quando un grande boato rese in frantumi la maggior parte dei borghi sanniti, tenendo sul peso della coscienza feriti e moribondi, con polveri innalzate in cielo e un grande, devastante, assordante silenzio. Il sisma rase al suolo la stessa Guardia, che però pian piano riuscì a risollevarsi. I conciatori di pelle, inoltre, non si limitarono a rimettere in sesto chiesa e campanile, ma decisero di agire in grande, chiamando in paese due eccellenze in fatto artistico che fecero della chiesa un prezioso scrigno di opere d’arte.
I due artisti che diedero lustro all’edificio, chiamati dagli stessi conciatori per impreziosire l’edificio, scrissero altresì la storia dell’arte partenopea nel mondo.
Domenico Antonio Vaccaro, prestigioso, se non il più autorevole artista settecentesco napoletano, fu il creativo a cui si devono sculture e preziosi stucchi, chiamato dai conciatori proprio per dare pregio alla struttura con i suoi eccezionali elementi decorativi. Pittore, scultore e architetto, personalità di punta per la prima metà del Settecento napoletano, praticò le tre arti a un alto livello tecnico–formale, tanto che i suoi contemporanei gli riconobbero “la potenza del suo inventare, la franchezza delle bizzarrie, la libertà del genio”.
Paolo De Matteis, invece, fu uno dei più grandi discepoli di Luca Giordano, e tanta maestosità e autorevole pregio diede anche agli interni della Reggia di Versailles. Proprio Giordano influì visibilmente su tutta la sua produzione. Intorno al 1682, De Matteis si recò a Roma dove venne presentato da Gasparo de Haro y Guzmán, marchese del Carpio, al pittore Giovanni Maria Morandi, che lo introdusse all’Accademia di San Luca. Fu nell’Urbe che “si diede ad osservare, e disegnare l’opere de’ migliori maestri della Romana Scuola” entrando, con ogni probabilità, in contatto con il nutrito gruppo di artisti francesi presenti in città, mentre a Napoli la cultura artistica oscillava tra il Barocco e il vero e proprio Manierismo.
Fu De Matteis ad affrescare la volta e le tele della chiesa-gioiello di Guardia, e non a torto, seppur con una leggera e onirica fantasia, questa meravigliosa chiesetta viene associata alla Cappella Sistina.
La volta è affrescata e suddivisa in riquadri e ha ricche cornici dalla tipica impronta del Rococò napoletano. Al centro, proprio per devozione dei committenti, troviamo affrescata la Vergine Assunta in Cielo.
Anche maestri argentieri diedero il proprio prezioso contributo, con lavorazioni di pregiata fattura. Basti pensare al celebre busto in argento di San Sebastiano, alto oltre un metro, rubato in seguito dal Museo degli Argenti.
Nel corso dell’Ottocento l’attività dei conciatori andò eclissandosi pian piano, di certo anche a causa dell’industrializzazione e della meccanizzazione della lavorazione delle pelli. Fu in quel periodo che, su progetto del laurentino Ciriaco Parenti, cominciò un piano di lavoro e rivalorizzazione dell’area delle sòle, che prevedeva la realizzazione della monumentale Fontana del Popolo alla quale è legato anche il nome di un altro illustre personaggio, Alfonso Sellaroli, guardiese e studioso dell’Istituto Galilei di Firenze. Quando tornò nella cittadina dei Sanframondo, nel 1875 vi fondò una Fabbrica Nazionale di orologi monumentali da torre, uno installato proprio sul campanile della chiesa di San Sebastiano, mentre l’altro è visibile su quello dell’Ave Gratia Plena. E proprio per la suddetta Fontana costruì un orologio e un calendario idraulico, in funzione fino al 1943, anno in cui fu purtroppo trafugato dai tedeschi.
Giornalista