Nell’intero territorio molisano il vivo ricordo della transumanza ricorda l’animo pastorale della regione. Pastoralità di ieri ma anche di oggi. E una nutrita presenza di animali bovini e ovini è il motivo per cui una delle principali eccellenze del territorio è la produzione casearia. In questa terra di tradizioni si sono conservati intatti alcuni “culti” gastronomici che tendono a sopravvivere su tutti gli altri e che non scompaiono. Generazioni e generazioni di famiglie, pastori, allevatori e contadini danno vita a meravigliose prelibatezze presenti sulle tavole di tutta Italia e non solo. I caseifici sono moltissimi, proprio perché figli di questa antica cultura della pastorizia, e molti sono gli allevamenti presenti nella intera regione, buona parte dei quali si trovano a quote altissime, che possono superare anche i 1200 metri. Soprattutto nel periodo invernale, chi vi lavora combatte con quotidiane difficoltà e non conosce soste, riposi, ferie: il freddo e la neve non aiutano, certo, eppure si procede senza fermarsi. Le aziende agricole che conferiscono le materie prime ai caseifici si occupano prevalentemente di fornire latte non pastorizzato garantito e la maggior parte degli allevatori ha superato una certa età, con la speranza che i giovani non si discostino del tutto da queste antiche usanze e che riescano a portarle avanti.
Caciocavallo, pecorino, caprino, scamorza sono le eccellenze della tavola del Molise. Sono molti i formaggi ad aver ottenuto il riconoscimento PAT, Prodotti Agroalimentari Tradizionali, marchio dato a quei prodotti le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura sono consolidate e protratte nel tempo, secondo le regole tradizionali. Alimenti profondamente radicati al territorio di produzione, che ne ereditano caratteristiche particolari che li rendono unici nel loro genere, diversi e quindi riconoscibili da ogni altro prodotto simile.
Il re per eccellenza dei formaggi molisani, a cui scherzosamente si dà anche il titolo di “Sua Maestà”, è il caciocavallo, uno dei formaggi tipici del sud-Italia, che in Molise, in particolare ad Agnone, Carovilli e Vastogirardi, viene prodotto in maniera eccellente. Fa parte della famiglia dei burrini, tipici formaggi del Sud Italia prodotti con latte vaccino dal cuore di burro. Ottenuto dal latte dei bovini che solitamente vengono lasciati pascolare allo stato brado nei campi, prende il suo nome proprio dalla tecnica di stagionatura: infatti, in questo periodo che va dai tre mesi ai due anni, viene appeso sempre in coppia, “a cavallo” di una trave. Ha la forma di una grossa pera, con due corpi tondeggianti uniti da una strozzatura nel punto di appoggio sulla trave, con una crosta sottile e dura che può essere più o meno morbida in base al periodo di stagionatura che avviene in ambienti con temperatura costante e ricambio d’aria: se stagiona di meno il colore è nocciola e risulta più morbido e dal sapore dolce; se invece la stagionatura si protrae, nel tempo la crosta può apparire variegata con muffe e il risultato è un formaggio più duro dal sapore più deciso. Viene spesso cucinato alla brace con la sua testa riempita di sale, oppure impiccato, come secondo piatto, ma è onnipresente anche nella preparazione degli antipasti. La presenza di piante aromatiche nella zona in cui si è nutrito l’animale caratterizza le sue note aromatiche e i suoi profumi. Si può trovare quello a erba e quello a fieno, in base al formaggio fatto col latte dei bovini che hanno mangiato proprio erba o fieno, di cui durante la stagionatura il formaggio prende l’odore.
Salendo verso le montagne molisane, come quelle del Matese, o andando da Agnone verso Capracotta, ci si imbatte in un altro tipico formaggio locale, il pecorino, anch’esso derivante dall’antica tradizione della transumanza. Il Pecorino del Matese PAT è un formaggio duro sia per la sua crosta che per il suo interno compatto e con rare occhiature che lacrimano. Viene prodotto con latte di capra e di pecora, particolarmente nei mesi che vanno da aprile a settembre. Ha forma cilindrica, con una spessa crosta marrone. Solitamente, anche per questo formaggio la produzione è fatta a mano, o al massimo con strumenti manuali in legno. Il periodo della stagionatura è simile a quello del caciocavallo e la maturazione avviene in luoghi freschi e areati. In questo caso, le forme vengono riposte su ripiani di legno e lavate quotidianamente. Ancora una volta, il periodo di stagionatura è fondamentale per il gusto stesso del formaggio: ha un sapore fragrante quando è poco stagionato, più inteso invece con il passare del tempo. Il Pecorino di Capracotta PAT, prodotto anche nei territori di Agnone, Carovilli, Vastogirardi, San Pietro Avellana e Pescopennataro, situati a oltre 1000 metri di altitudine, è molto simile al “collega” del Matese, anche nelle dimensioni, ma la sua pasta è semidura e untuosa, con un sapore pieno e aromatizzato, e se molto stagionato, piccante e deciso. Si usa solo il latte di pecora, niente capra, e la sua produzione comincia già da marzo. Più la sua forma è piccola più il suo sapore è intenso, perché la pasta è ridotta rispetto alla crosta che in questo caso è color nocciola chiaro. Quando la pasta viene lavorata e messa in forma e pressata per essere liberata dal siero, viene rovesciata molte volte in modo da dare a tutta la superficie del formaggio il motivo rigato del contenitore. Anche nel caso del pecorino, i caseifici ne producono diverse varianti aggiungendo pepe nero, peperoncino, pomodori secchi, olive o tartufo.
A proposito di latte di capra, il caprino è prodotto in tutto il territorio regionale ma particolarmente rinomato è quello di Montefalcone del Sannio. Il latte è ottenuto da razze autoctone, dove l’allevamento delle capre, riunite in grossi greggi nei pascoli montani, ha ancora particolare rilevanza per l’economia locale. La stagionatura avviene in cantine e luoghi freschi e areati con l’utilizzo della “cascera”, un particolare utensile di legno che viene appeso al soffitto in cui vengono collocate le forme per almeno un paio di mesi. Il suo odore può cambiare in base alle particolari alimentazioni dei pascoli, quindi il sapore deciso del formaggio lo si deve per lo più alla flora locale.
La Treccia PAT di Santa Croce di Magliano, in provincia di Campobasso, è un formaggio a pasta filata dall’aspetto imponente ed è considerato una vera e propria opera d’arte: larga una ventina di centimetri e lunga circa un metro, ha l’aspetto di una grossa treccia realizzata con vari fili, strisce sottili di circa mezzo centimetro. Ottenuta da latte vaccino crudo, è un formaggio a pasta filata che inizialmente è di colore bianco e che tende a diventare giallo dopo un giorno. La Treccia viene usata come ornamento durante la festività della Madonna dell’Incoronata che si svolge l’ultimo sabato di aprile, periodo in cui solitamente cominciava la transumanza. Ė una festa che richiama molto le antiche usanze pastorali: i pastori e gli animali che ricevono la benedizione del parroco, per auspicare la benedizione anche di San Giacomo, il santo patrono del paese, la portano a tracolla o attorno al collo. Alla fine della processione, i pastori prendono le trecce di formaggio, le tagliano a pezzi e le danno alle varie famiglie del borgo, quale simbolo di condivisione. Questo rito è stato decantato, nei primi anni del Novecento, in una poesia in dialetto del poeta Don Raffaele Capriglione. A Santa Croce di Magliano se ne producono circa 1000 kg all’anno.
La stracciata di Agnone del caseificio Di Nucci, da cui si rifornisce anche il papa e la Città del Vaticano, è stato eletto “Miglior formaggio italiano” all’Italia Cheese Award di Bergamo nel 2017, ed è un formaggio a pasta filata fatto con latte vaccino. La pasta, di colore bianco avorio, viene lavorata con una paletta di legno, con movimenti di stiratura e pressione e modellata con le mani. Il suo nome deriva dal verbo “stracciare” che è appunto l’azione fatta per la realizzazione questa bontà. In passato, la stracciata era immancabile nei banchetti nuziali e negli eventi importanti, anche in quelli casalinghi nei quali, tra le altre cose, non mancava mai il pane che la conteneva insieme al prosciutto crudo. La scamorza è un formaggio molto comune in Italia e in Molise ha un’intensa produzione in tutto il territorio, specialmente nella parte alta della regione, la cui produzione è davvero pregiata. È composto da latte vaccino di razza Bruno-alpina. Ha una forma a pera, la crosta è una liscia pellicola morbida di colore giallo paglierino, la pasta è compatta e profuma di latte. Il suo sapore è dolce e talvolta ha il sentore di fumo, in caso di esposizione a esso, e presenta sempre il latticello. La metodologia di lavorazione è la stessa del caciocavallo e dopo aver preso la sua forma, la scamorza viene appesa e legata a coppie per qualche ora, quindi si consuma subito oppure si lascia “passire” per 48-72 ore, prendendo appunto il nome di “passita”. Si può consumare cotta alla brace e servita con pane casereccio e verdure ed è particolarmente versatile in cucina, impiegata come ingrediente in preparazioni gastronomiche quali pizza, tortini di verdura e parmigiana di melanzane, rendendo filanti e gustosi primi e secondi piatti. Una volta veniva destinata solo al consumo locale, mentre oggi è abbondantemente venduta anche al di fuori della zona di produzione, essendo un prodotto versatile ed eccellente.
Il formaggio di Pietracatella viene prodotto con latte intero vaccino e/o ovino e/o caprino nel Fortore molisano, in particolare a Pietracatella, in provincia di Campobasso. Ha una crosta con le solcature tipiche del canestro e viene fatto stagionare nelle vecchie case e in grotte di tufo, dette mogie, per almeno un paio di mesi. Il caciosalame ha origini più recenti ma nasce dalla memoria del nostro passato. La pasta di caciocavallo avvolge una soppressata e ravviva nelle nostre menti le storie e le vicissitudini degli emigranti italiani del secondo dopoguerra: all’interno del formaggio veniva nascosto il salame soppressata per superare i rigidi controlli doganali a cui venivano sottoposti per raggiungere il Nuovo Mondo.
A proposito di prodotti PAT, meritano un’importante menzione fiordilatte e mozzarelle, tradizione antica nella zona molisana di Bojano. Qui si incrociano le correnti d’aria calda, i venti di montagna e il vapore che viene dal Biferno, dando origine a un ambiente molto umido, habitat perfetto per la lavorazione della mozzarella. La mozzarella di Bojano è spesso realizzata a mano, con tecniche e accorgimenti tramandati da generazioni. È un prodotto che nasce esclusivamente da latte vaccino e acqua. Amata da tutti, adulti e bambini, viene gustata al naturale o al massimo con l’unico condimento ammesso, ossia un sottile filo di olio extravergine d’oliva. Viene molto utilizzata anche in cottura, come si fa con le scamorze, per timballi, paste al forno, pizze e tante altre bontà. Infine, se ci spostiamo ai confini con la Campania, terra per eccellenza della rinomata mozzarella di bufala, vi è una particolare produzione della stessa in territorio molisano, prodotta con latte intero e fresco di bufala mediterranea italiana. Come per quella campana, anche alla mozzarella di bufala molisana, in particolare quella di Venafro, è stato riconosciuto il conferimento DOP, dato che la sua produzione ha visto coinvolti anche allevatori e produttori molisani che hanno rispettato il disciplinare di produzione. Come mangiare la mozzarella di bufala è scelta di chi la assapora: da sola, in mezzo a due fette di pane, con un’insalata caprese, ma solitamente cruda e mai nei ripieni. Unica raccomandazione, sacra per gli amanti della mozzarella di bufala: mai conservarla in frigorifero, piuttosto tenerla a temperatura ambiente nel suo latticello.
Giornalista