Immagini dal Sannio: il Carnevale sannita di tanto tempo fa

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Corteo dei dodici mesi a Moiano, foto di terresannite.org

Un tempo si era abituati a divertirsi con poco. Se il Carnevale di oggi impone musica e gonfiabili che attirino i più piccoli, tanto tempo fa la regola fondamentale era stare insieme, in maschera, o con qualche vestito a tema, che i più fortunati sicuramente avevano, senza pretese di alcun tipo. Magari dei coriandoli, e piccoli e innocenti scherzi. La musica era certamente una componente essenziale, allora come oggi, perché il giorno del Carnevale ha sempre rappresentato un momento di grande ilarità e gioia. Molti di noi hanno ricordi di mamme o nonne, che nelle giornate più fredde sedevano vicino al caminetto di casa a sforbiciare dai giornali, con stampa in bianco e nero ma anche a colori, coriandoli non proprio rotondi, imperfetti, squadrati. Quelli rotondi pretendevano una gran quantità di tempo e di concentrazione e dato che potevano anche essere acquistati, venivano quasi considerati un lusso. I piccoli, una volta muniti di coriandoli, si travestivano e cominciavano ad aspettare impazienti di potersi divertire insieme ai coetanei. Pezze, colori, toppe, gioia e allegria, e ancora lustrini e trombette, musica, cipria e rossetto, e tanto cerone. Ma soprattutto, divertimento. Tarantelle e numerosi altri balli, le quadriglie o ancora la rievocazione dei tradizionali mesi, le questue porta a porta o balcone a balcone, e tanto, tantissimo cibo. Zeppole, lasagne, uova, dolci in abbondanza per il giorno più festoso dell’anno.

È di Francesco Corazzini, del 1877, la trascrizione de I dudece misi, una rappresentazione carnevalesca di strada in versi sui mesi dell’anno. Non era certamente l’unico classico che veniva rappresentato nella giornata del Carnevale. A Benevento si recitavano ‘A Zeza e ‘A Zingarella. ‘A Zeza beneventana, come quella napoletana, è una vera chicca della Commedia dell’Arte e racconta la vicenda di Vincenzella, figlia di Pulcinella, intenta a creare un incontro di nascosto con il suo amante, E lo farà proprio grazie alla complicità della madre, Zeza. Pulcinella, però, una volta scoperto l’inganno, minaccia di fare una strage e diventa difficile riuscire a rabbonirlo. Il pretendente di Vincenzella, don Nicola, è un ottimo pretendente, in quanto notaio (in altre zone d’Italia il nome è don Zenobio e di professione fa il medico), il quale garantirebbe un ottimo status sociale e un elevato tenore di vita alla figlia. Pulcinella, che ha paura di essere disonorato da tale rapporto amoroso, vigila molto su Vincenzella e controlla, con lo schioppo che spara a farina, che tutti stiano lontani da lei. ‘A Zeza si rappresentava nei cortili dei palazzi, nelle strade, nelle osterie e nelle piazze, il tutto grazie alla bravura di attori occasionali o compagnie di quartiere, che si facevano annunciare a suon di tamburo e di fischietto. Nella seconda metà del XIX secolo, a seguito dell’emanazione di divieti ufficiali che ne proibivano la rappresentazione per le strade “per le mordaci allusioni e per i detti troppo licenziosi ed osceni”, ‘a Zeza fu accolta esclusivamente nel periodo di Carnevale, ma unicamente nei teatri frequentati maggiormente dalla plebe, e in seguito nelle campagne adiacenti. Zingarella, invece, ha una trama recitata in strada, con gran fracasso per via di botti e mortaretti, utilizzati per creare un’atmosfera infernale. La storia, infatti, riprende quella della ricerca di Persefone da parte della madre Demetra. Storie, queste, che vedono tra i protagonisti Pluto e Satana, maghi, la Regina, la Damigella. Maschere, personaggi e tanta tradizione.

Foto di copertina, rappresentazione della Zeza

Col tempo il Carnevale è diventato un dispendio di energie per esibire la maschera o il vestito più belli, e gli scherzi di Carnevale hanno portato in auge botti, ma anche schiuma da barba e uova marce. A tavola, oggi come allora, si mangia tanto, specie piatti ripieni e ricchi, realizzati con ingredienti genuini. Le polpette erano il cibo delle feste dei poveri e non mancavano mai su nessuna tavola. Polpette realizzate, perlopiù, da poca carne e tanto pane. E ancora oggi, esse abbondano un po’ su tutte le tavolate carnevalesche, ritrovandole persino nelle lasagne. Durante la guerra, ma anche nel dopoguerra, cucinare la carne era davvero una fortuna. Un solo pezzetto lo si conservava gelosamente e con esso si preparavano anche il brodo, il ragù domenicale, e poi ogni genere di ripieno. Il Carnevale era la festa dello sbafo, quello che si poteva nei giorni carnevaleschi non era sempre consentito. Anche in cucina. Un po’ come dire “A Carnevale ogni scherzo vale”, ma questo non era uno scherzo, era la dura legge delle ristrettezze economiche. La lasagna con le polpettine, tradizione perlopiù partenopea, è sempre la regina incontrastata della tavola carnevalesca. Nelle case contadine si comincia ad assaggiare la salsiccia preparata a gennaio, messa a seccare nelle cantine. In alcune zone fortorine, come a Fragneto Monforte, i bambini a Carnevale girano casa per casa per chiedere di assaggiare la salsiccia nuova, augurando che essa possa andare a male se gliela dovessero rifiutare. Ma ancora padellata di uova e salsiccia, pizza piena, dolci maggiormente cotti fritti che al forno. Il sanguinaccio, oggi purtroppo caduto in disuso per motivi igienici, prima non mancava mai in nessun pranzo carnevalesco: era un dolce sannita, confezionato con sangue di maiale, cacao, zucchero, canditi e pinoli.

Quello che non manca, e che è restato uguale al Carnevale di tanti anni fa, è la sana voglia di essere qualcun altro (o qualcos’altro) per un giorno. La voglia di evadere, di uscire dalla propria dimensione quotidiana e di restare sempre un po’ bambini, mentre i bambini immaginano di essere gli adulti che ancora non sono e che non saranno per parecchio.