Il fenomeno del brigantaggio ebbe inizio già verso la fine del XVIII secolo per allargarsi a macchia d’olio negli anni successivi all’Unità d’Italia. La miccia scatenante era solitamente il senso di oppressione di piccole minoranze. Si aprì la questione meridionale che mise in luce la divergenza che vi era tra Nord e Sud: terre industrializzate, da un lato, che cominciavano a offrire nuove e maggiori opportunità lavorative, e territori prettamente agricoli nella parte meridionale dello Stivale, che comunque vennero omologate, con l’avvento della cosiddetta piemontizzazione, alle regioni settentrionali. Eppure, erano evidenti le differenze culturali e i sistemi certamente più arretrati del Sud rispetto al Nord.
Un malcontento che, nelle regioni del Mezzogiorno, portò appunto al fenomeno del brigantaggio, con le piccole e in seguito grandi rivolte da parte delle masse di contadini. Si formarono 400 bande armate, con circa 80mila uomini. Il Sannio, e dunque anche la zona matesina, non fu certamente risparmiato da tali eventi. Molte bande terrorizzarono e seminarono violenza nelle terre molisane.
Cercemaggiore, in Molise, fu uno dei paesi più colpiti dal fenomeno dei briganti, così come racconta l’archeologa Angela di Niro, parlando di uno dei più noti fomentatori di odio e violenza: “Francesco Sabatino era venuto alla luce il 16 maggio 1830. Si può immaginare che sia cresciuto come tutti i bambini figli di nullatenenti. Quello che il signore feudale non era riuscito a togliere loro, quello che il prete non aveva finito di sottrarre, quello che il comune non aveva ancora finito di succhiare ai contadini con le tasse, il nuovo stato divorava. Possiamo immaginare che man mano che cresceva in età, in Francesco cresceva anche la rabbia. Dalla memoria orale, che ancora persiste presso i nostri anziani, sappiamo che Cicche Semente, come veniva chiamato da tutti, era uno intelligente. Secondo i racconti popolari, i gendarmi ci misero molto a catturarlo perché era astuto. Maria Luisa Ruscitto, invece, nacque a Cercemaggiore il 5 maggio 1844 da famiglia poverissima. Secondo i racconti orali, nella primavera 1863 la giovane Luisa era stata mandata dai suoi padroni per delle commissioni in contrada Cappella. Qui però le si fece davanti il brigante Michele Caruso, un capobanda di Torremaggiore, che la rapì. La mise sul suo cavallo e la portò con sé. La addestrò da subito all’uso delle armi, tanto che Michele Caruso non esitò a darle incarichi di comando all’interno della banda. Nell’agosto 1863 la banda Caruso fu assalita in provincia di Foggia. Morirono sette briganti, gli altri riuscirono a fuggire, compreso Caruso. Maria Luisa non ebbe scampo, i compagni erano troppo lontani con i cavalli per poterla sentire e soccorrere. Si acquattò nei rovi ma fu catturata. Fu processata a Trani e fu condannata a 25 anni di lavori forzati”.
Ciò che bisogna dire è che il fenomeno tendeva a svilupparsi maggiormente nelle zone montane, laddove i briganti potevano sbizzarrirsi nelle loro scorrerie. Il Matese fu vero protagonista di tali moti. Dal monte Mutria alla Terra di Lavoro, fino alle aree interne molisane, la zona, con i suoi territori impervi, nascondigli, rifugi, dava la possibilità di nascondersi alla polizia e comunque di potersi creare una sorta di sicurezza. Spesso i briganti si nascondevano nei valloni profondi e nelle grotte, oppure sovente approfittavano della loro presenza sapendo che sarebbero stati un difficilissimo ostacolo da superare da parte di chi dava loro la caccia. Cavità naturali, come le grotte, potevano apportare approvvigionamento idrico ai briganti, grazie, ad esempio, alla neve che si scioglieva.
I versanti montani del Matese non presentavano case, piuttosto capanne dei pastori. Le loro tane erano posti più impensati: talvolta utilizzavano le cavità degli alberi, certamente enormi, considerando che i briganti non agivano mai singolarmente, ma sempre in comitiva. Essi infatti decidevano, progettavano, dividevano soldi, nascosti e sempre tutti insieme, formando comitive numerose, tipicità del brigantaggio.
Ed erano briganti, non semplici malviventi. Questi ultimi avevano, e ancora hanno, una vita apparentemente normale, un lavoro e magari agiscono in orari di libertà. I briganti no. Loro si occupavano soltanto della loro missione, di giorno e di notte, e non avevano altro interesse.
Di seguito un passo tratto da matese.org: “Ancora oggi Roccamandolfi viene ricordato come la patria dei briganti . In verità il paese è stato interessato da diversi fenomeni di brigantaggio favoriti dalle caratteristiche del territorio , che offriva sicuro rifugio, Berlingieri ricorda episodi di rivolte sociali che videro coinvolti alcuni cittadini di Rocca già alla fine del ‘700. Una delle figure di brigante , circondata da un alone di leggenda, è quella di Sabatino Lombardi detto il Maligno. Il povero Maligno non nacque brigante, lo divenne per reazione ad una serie di torti subiti. La sua vicenda ha inizio nel 1804 con la fuga dalle carceri di Capua, ove era stato rinchiuso per un crimine non commesso. Unitosi ad altri briganti organizzò numerose scorrerie, la sua ferocia si scaricò contro la famiglia Cimino, responsabile delle sue disgrazi , nonché della morte della madre. Venne ucciso nel 1812 in località Colle Castrilli ed il suo cadavere, si narra, venne trascinato per le vie del paese. La testa, staccata dal corpo, fu messa in una gabbia e appesa al campanile ove rimase fino al 1843. Le reazioni filoborboniche del 1860, estese tra l’altro a tutto il meridione, videro la partecipazione in prima persona di due figure notevoli di capobanda :Samuele Cimino e Domenicangelo Cecchino detto ‘Rafaniello’ i quali, dopo aver disarmato la Guardia Nazionale in Roccamandolfi e partecipato alla reazione di Isernia, furono costretti a darsi alla macchia sulle montagne del Matese.
Inizia così la lunga serie di delitti e malefatte della banda che, intanto, si era notevolmente ingrandita; anche Marta, sorella di Cecchino, si unì ai banditi diventando la compagna di Cimino. Cimino morì, secondo la tradizione popolare raccolta dal Berlingieri, nell’agosto del 1861, ucciso dal cognato a causa di una lite scoppiata per motivi di gioco (fonti storiche più sicure ne indicano la morte nel novembre dello stesso anno alla foce del Saccione, ucciso in una imboscata insieme al giovane figlio Antonio ed ai suoi pochi compagni rimasti ). Anche Marta venne uccisa dalla stessa banda perché l’avanzata gravidanza era diventata di incomodo per gli improvvisi e veloci spostamenti dei compagni . Nei primi di settembre Cecchino veniva sorpreso in una grotta in località ‘Macchitelle’, dove si era rifugiato perché ferito durante un precedente scontro con la Guardia Nazionale. Condotto al paese da Attanasio De Filippis e Cusano Costantino venne fucilato sulla piazza il 4 ottobre. Il brigantaggio dopo la morte di Cecchino e Cimino, perse quelle motivazioni politiche che lo avevano caratterizzato, degenerando in fenomeno di criminalità comune e marginale, ma non per questo i successori furono meno famosi per le loro scorrerie. La banda, divisa in due, fu guidata da nuovi capi ‘Pace’ e ‘Guerra’ ed in ultimo da Domenico Fuoco, che con pochi compagni visse undici anni nelle campagne e si fece temere nel Molise, in Terra di Lavoro e nel beneventano. Raffaele De Filippis e Liberato Lombardi vennero uccisi in contrada Cimpuni nel marzo del 1863.
La piazza del paese sarà la solita testimone dei macabri raccapriccianti spettacoli offerti alla sorpresa della popolazione. Verso la fine del gennaio del 1866 Domenico Fuoco compiva delitti inauditi ; in località ‘Mulino di Scino’ uccideva Gianfrancesco Giuseppe che tornava a Longano. Nella primavera dell’anno successivo in località ‘Campo le Fosse’ sterminò una intera famiglia. Mutilava i corpi dei malcapitati rappresentanti dell’ordine e inviava parti di esse alle autorità, schernendole e provocandole. Pietro di Marco detto il ‘Vagabondo’, fu l’ultimo brigante di Roccamandolfi, entrò nella banda di Guerra dopo aver assassinato la madre della propria innamorata perché questa non voleva dargliela in moglie. In località ‘Campo le Fosse’, sotto l’effetto dell’alcool, nel maggio del 1868 trucidò i fratelli Martelli, Cesare de Filippis e Gaetano Rizzi. Allora faceva parte della banda di Fuoco che di lì a poco dovette spostarsi per altra destinazione lasciandolo indietro perché ferito. Il sette agosto fu trovato da due suoi amici, Liberato Lombardi e Antonio de Castro che lo consegnarono al Comandante della Compagnia. Venne fucilato nello stesso campo le Fosse e condotto riverso su un somaro, in paese”.
Come testimonianza della memoria storica di questi eventi di brigantaggio e scorrerie, proprio a Roccamandolfi è presente un museo, inaugurato in questi ultimi anni, che ne conserva la rievocazione, intriso di ricordi, aneddoti e cronistorie di ciò che fu un fenomeno caratterizzante la storia, la cultura e le radici di quest’aria matesina. Non un museo da vedersi nella sua accezione tipica, ma un luogo in cui, grazie a video filmati in 2D e 3D, ripercorre il fenomeno in chiave assolutamente moderna. Un luogo in cui esaudire ogni curiosità sugli eventi del passato, in cui rivolte contadine, a causa di disuguaglianze a discapito di classi più disagiate, diedero vita al fenomeno che ha visto il suo manifestarsi nelle impervie e selvose zone territoriali.
Giornalista