Immagini dal Sannio: il notaio Libero Serafini, l’agnonese giustiziato in nome della libertà

postato in: Immagini dal Sannio | 0
Condividi articolo
Agnone, monumento a Libero Serafini, foto di copertina di Barbara Serafini

Era il 23 gennaio 1799, il giorno in cui ufficialmente nacque la Repubblica partenopea, o napoletana, che inizialmente era formata da undici Dipartimenti, ciascuno dei quali era diviso in Cantoni, costituiti inoltre da un certo numero di Comuni. Il Molise fu incluso, per la maggior parte del suo territorio, nel Dipartimento del Sangro e nella parte occidentale della regione si costituirono delle nuove municipalità.

Intanto, ci spostiamo ad Agnone, cittadina culturale, nobile e storica della provincia di Isernia. Fu proprio qui che immigrazioni di colonie marchigiane diedero vita a ferventi attività e tradizioni artigianali nella lavorazione del rame, dell’arte orafa, della fabbricazione di orologi e della fusione delle campane, quest’ultima esclusiva della famiglia Marinelli e della omonima Fonderia Pontificia, la più antica fabbrica di campane del mondo. Agnone è l’Atene del Sannio, non solo perché patria di illustri letterati, ma per la presenza delle biblioteche Emidiana, della Diocesi di Trivento, che accoglie più di 10mila libri, oltre a codici, manoscritti e incunaboli, e le Biblioteche Riunite Comunale e Baldassarre Labanca.

Di Agnone era Libero Serafini, illustre uomo di cultura, cittadino che morì in nome della Repubblica. I giacobini agnonesi aumentavano sempre più e si organizzarono in sette, società e circoli, partecipando a numerose riunioni. Appena giunta la notizia della proclamazione della Repubblica di Napoli, si provvide a erigere in piazza del Tomolo, dove era il mercato delle granaglie, l’Albero della libertà. Si tenne, inoltre, l’istituzione della Municipalità di Agnone, di cui il notaio Libero Serafini, per la sua probità, cultura e autorevolezza, fu eletto presidente all’età di 47 anni. Era convinzione di ogni cittadino agnonese che Serafini, dal piglio nobile, figlio di un notaio e appartenente a una delle famiglie più ricche della città, non avrebbe mai rinnegato e tradito quel giuramento. Libero viveva in una grande casa signorile assieme alla sua famiglia: la moglie, donna Concetta Arruffo, e quattro figli: Giuseppe Nicola, diciannovenne coniugato, Francescantonio, Maria Niccoletta e il più piccolo Mariano, di soli 8 anni. Per un periodo, il notaio mise da parte famiglia e professione notarile per immergersi totalmente nei compiti di governo che incombevano. Serafini voleva trasformare la struttura politica agnonese, abolire i privilegi di ogni genere, creare una società libera senza sudditi, in cui ogni uomo potesse partecipare alla res publica. Sognava di riscattare le masse popolari dalle vessazioni dei potenti. Libero Serafini era dalla parte dei più deboli e viveva in nome della libertà.

Dopo soli quattro mesi di vita, verso la metà di maggio, le sorti della Repubblica partenopea erano segnate. L’avanzata dei Sanfedisti fu molto rapida e in quei giorni il notaio Serafini si trovò protagonista di un increscioso episodio. Giambattista Pronio, capo massa degli insorgenti della regione di Vasto, esortò il Serafini, per mezzo di una missiva, ad abolire tutti gli Alberi della libertà. Questi rifiutò rispondendo che mai sarebbe venuto meno al suo giuramento. Gli agnonesi vivevano nel terrore di veder arrivare bande di insorgenti e di perdere la loro indipendenza e il presidente Serafini sperava che vincessero giustizia e democrazia, certo che le masse popolari si sarebbero rivoltate contro le ingiustizie del clero. Si doveva continuare a combattere, dunque, e fu così che decise di recarsi a Campobasso per chiedere rinforzi al commissario Nicola Neri. Con buona probabilità, era il 20 maggio 1799: il notaio Serafini percorse circa 90 km a piedi, in soli due giorni, assieme ai suoi compagni. Prima di partire, strinse la sua famiglia, amici e parenti in un lungo abbraccio: forse sentiva che non li avrebbe più rivisti, in ogni caso non sarebbe stato facile mandar loro notizie. Chiese a Francescantonio, il maggiore dei figli, tredicenne, che ancora viveva in casa con i genitori, di prendersi cura della mamma e dei fratellini.

La sera del 4 giugno mosse con Neri verso la zona di Vinchiaturo e Campochiaro per raggiungere il massiccio del Matese, ma poco dopo il Serafini, per motivi non ben chiariti, proseguì da solo alla volta di Avellino, che raggiunse probabilmente il 9 giugno. In quel periodo, la città irpina stava per cadere in mano all’armata del clero. Il notaio fu catturato. Alcune fonti borboniche descrivono nel dettaglio la sua triste avventura. Il colonnello, don Scipione della Marra, e il Padre Maestro Antonino Cimbalo, si recarono in un quartiere a sedare un gruppo di fucilieri. Videro trascinato un uomo di mezza età, che pareva si chiamasse Libero Serafini. Chiesero il motivo per cui lo trascinassero così e si rivolsero al povero notaio per chiedere le sue generalità. “Io sono il presidente della Municipalità di Agnone, in provincia di Abruzzo”. A questa ardita risposta, seguì la domanda “Chi Viva”? ed egli, senza alcun timore, rispose: “Viva la Repubblica francese e napoletana, moranno i tiranni”. I presenti lo avrebbero ucciso su due piedi se non avessero pensato che il Serafini fosse al di fuori di ogni ragione e lucidità mentale. Provarono invano a convincerlo che se avesse ritrattato quanto detto, si sarebbe salvato. Avrebbe dovuto semplicemente urlare “Viva il Re”. Ma il Serafini rispose: “No, ho giurato fedeltà alla Repubblica napoletana e francese, e quindi non posso né devo più retrocedere dal prestato giuramento”. Subito il Tribunale supremo, nel cuore della notte, decise che l’eroico notaio dovesse morire sulla forca.

Libero Serafini fu quindi impiccato l’11 giugno, sotto la Porta di Puglia. Il giacobino sannita morì dinanzi a una grande calca di gente urlante, e il cadavere restò per parecchie ore penzoloni, le mani legate dietro la schiena, e il viso contorto, finché non fu gettato nella fossa comune. Alla notizia della sua morte, pochi mesi dopo morì anche sua madre Anna Rosa De Curtis, mentre la moglie e i quattro figli caddero in disgrazia, poiché la condanna a morte portava alla confisca di ogni bene, miseria da cui non riuscirono più a uscire. La figura del Serafini fu dimenticata, sia nel territorio agnonese, sia nel mondo notarile e si deve a Giustino Fortunato, storico del Meridione d’Italia, la scoperta del suo nobile animo e delle sue gesta.

Agnone, lapide a Serafini nel bicentenario dalla morte, foto di Barbara Serafini

In occasione del primo centenario della sua morte, in Agnone si costituì un comitato per la realizzazione di un monumento in suo onore, ove un secolo prima sorgeva l’Albero della libertà. Lo scultore Giulio Monteverde fu incaricato alla costruzione dello stesso e il monumento fu inaugurato l’8 dicembre 1899. A LIBERO SERAFINI LA PATRIA 1899. Ai piedi del monumento, un’iscrizione del chiarissimo professore Alessandro Serafini, ordinario e Direttore dell’Istituto di Igiene dell’Università di Padova: 

Senza Speranza senza ambizione di gloria

Lungi dal suolo nativo

In Avellino XI giugno MDCCXCIX

Sulla forca serenamente morendo

Per la fede alla repubblica giurata

Madre sposa figli

Favore di popolo avite dovizie

Alla patria alla libertà

Eroicamente sacrificava.

Libero Serafini è probabilmente da considerarsi un eroe, o forse anche un martire: uomo mite e schivo, ricco ma che faceva delle sue ricchezze uso nobile e filantropico, come citato dalla rivista Eco del Sannio del 25 febbraio 1899. Gaetano Amato, storico e autore di una biografia del Serafini scritta in occasione del bicentenario della sua morte, si rivolse a tutti i notai italiani con un monito: “Che questi rafforzino il loro carattere, ispirandosi al fulgido esempio del loro lontano predecessore, a me sembra, pur oggi, non soltanto opportuno ma salutare, ai fini dell’immagine che il notariato deve dare di sé, oggi, e più ancora dovrà dare nel futuro alla collettività”.