È appena passata la giornata in cui la chiesa cattolica celebra Sant’Anna, figura a cui il Molise è particolarmente devoto per un terribile evento che ora vado a ricordare. Tutto risale al 26 luglio 1805, giorno in cui l’area appenninica, in particolare il Molise, venne scossa da un violentissimo sisma che viene tutt’oggi ricordato come Terremoto di Sant’Anna. Il sisma colpì una vasta area dell’Italia centro-meridionale ed ebbe effetti distruttivi nell’area pedemontana del Matese. Già il mattino e la sera del 25 luglio piccole scosse si trascinarono in uno sciame sismico continuo, di bassa frequenza. Secondo la testimonianza di Giuseppe Saverio Poli (Memoria sul tremuoto de’ 26 luglio del corrente anno 1805), erano da poco passate le 22, in una sera d’estate come tante, giorno di festa per i devoti della Santa Madre Anna, quando un improvviso vento fresco e impetuoso si trasformò in una folata turbinosa e furente e a seguire un terribile rombo. Secondo gli studiosi, la prima scossa raggiunse il IX grado della Scala Mercalli. Furono quarantacinque lunghi e interminabili secondi di terrore e distruzione. L’epicentro si registrò a Guardaregia, Busso, Vinchiaturo e Frosolone. E fu proprio a Frosolone che, su 4.000 abitanti, si registrarono 1.000 morti. Non pochi certamente. Anche Isernia contò 1.000 decessi su circa 6.000 abitanti, mentre a Bojano crollarono edifici e chiese, specie nella parte bassa, alle falde del Matese. La parte superiore del paese, la Civita Superiore, fu meno colpita, ma comunque la maggior parte delle case divenne inabitabile. Campobasso contò soltanto 46 morti, ma un terzo degli edifici cadde rovinosamente, tra cui la chiesa cattedrale della SS Trinità. Secondo un calcolo approssimativo, furono 5.774 i morti totali e centinaia di feriti. A Jelsi si contarono solo 31 morti e sembra che a Pescolanciano ne siano stati soltanto 4. Da allora nei due piccoli borghi si festeggia con molta devozione la santa patrona, omaggiandola di processioni di traglie e manuocchi. Non solo il Molise: furono fortemente danneggiate dal violentissimo sisma anche città extraregionali, dalla Puglia alla Calabria: Melfi, Sant’Angelo Limosano, Castelpagano, San Severo, Salerno, Aversa, Pozzuoli, Napoli, dove quasi tutti gli edifici risultarono lesionati. Anche Ischia e Ventotene avvertirono pesantemente la scossa, così come Anagni, Segni, Roma, e ancora Spoleto, Foligno, Camerino, fino a Cosenza verso sud.
Isernia e Campobasso furono tra i centri con un danneggiamento del IX grado. Il re del Regno delle due Sicilie, Ferdinando IV, si apprestò a gestire l’emergenza prontamente, nonostante i problemi politici del periodo fossero abbastanza evidenti. Il sovrano intervenne contemporaneamente su due fronti: uno era Napoli, la capitale del Regno, duramente colpita dal sisma. Il 30 luglio nella città partenopea venne emanato un bando rivolto alle classi più agiate. che obbligava a provvedere con celerità alla sistemazione degli edifici, a proprie spese, pena il “sequestro generale di tutti i loro effetti, per potersi le riparazioni perfezionare”. L’altro fronte a cui dovette pensare celermente il monarca fu la Provincia, maggiormente colpita rispetto alla capitale. Il re incaricò l’avvocato fiscale Gabriele Giannocoli a fare una rapida ispezione e pronti provvedimenti, sia nel Contado del Molise sia nel Principato Ultra, concedendogli il potere di ampie facoltà decisionali.
Intanto, già il 27 luglio, gli amministratori di Isernia scrissero al re questa missiva: “… ieri sera 26 dell’andante luglio verso le due e mezza della notte cadde tutta la città dal tremuoto, a tal che buona parte dei cittadini sotterrati vivi dalla rovina ebbe a pigliar ricovero nell’aperta campagna… Isernia, Maestà, non è più Isernia, e le fabbriche tutte o son cadute o stanno per cadere al suolo…”. Giannocoli raggiunse la città già il 2 agosto 1805, e si trovò al cospetto di una città veramente disastrata. Egli si apprestò a scrivere al re le seguenti parole: “…Isernia… ha sofferto la perdita di circa 2000 anime; ed una sola decima parte delle fabbriche esiste in piedi … ” e questo perché “… Questa città non ha che una sola strada nel mezzo ed una serie di edifizi lateralmente… Il tremuoto rovinò una metà della Città solamente, e propriamente quella che si eleva verso l’oriente, ossia la più prossima agli Appennini…” (PEPE, 1806). Fra le rovine che poté constatare, la caduta rovinosa della chiesa e il convento di Santa Croce, la chiesa della Concezione e il monastero di Santa Chiara, il monastero e il convento di Santa Maria delle Grazie e la chiesa di San Pietro Apostolo. Particolarmente colpito fu il convento di Santa Maria delle Monache: da lì cominciò un lungo periodo di decadenza, fino alla soppressione e alla trasformazione in biblioteca. Nemmeno da Campobasso le notizie erano migliori. Questa la missiva inviata nello stesso giorno successivo al sisma, il 27 luglio, intitolata a S.R.M. (Sua Reale Maestà): “…Campobasso e’ rovinata; un terremoto spaventevole… Ieri sera 26… luglio, verso le ore due della notte avvenne questo orribile flagello – Rovino’ Chiese, Monasteri, Conventi, Campanili, Palazzi e case di ogni sorta – Due Conventi de’ M.S.S. Giovanni; e S. Maria delle Grazie; nel primo ha rovinato la Chiesa; e nel secondo appena ne sono rimasti i vestigi… Palazi, e case ne sono caduti moltissimi; il numero dei morti non si può fin’ora sapere”. Oltre alle chiese gravemente danneggiate, fu notevolmente colpito un antico cimitero dove gli scheletri “si trovano a nudo cielo”. e il carcere “in maniera da non potersi stare i detenuti” (A.S. Napoli f.c.) tanto che questi vennero temporaneamente legati a un grosso albero in attesa di trovare una baracca dove poter essere sistemati. Qualche anno dopo, con la discesa di Gioacchino Murat in Italia, la città poté vivere la sua totale ricostruzione, più a valle, il cosiddetto borgo murattiano.
Giornalista