Immagini dal Sannio: la leggenda del torrone dei Sanniti, dolce di guerra

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Uno degli storici protagonisti gastronomici del capoluogo sannita, caratteristico del periodo natalizio, è il progenitore del torrone, la cupedia, conosciuta già al tempo dei Romani, la cui paternità viene attribuita addirittura ai Sanniti, almeno stando ad alcuni scritti di Tito Livio. Marco Valerio Marziale, celebre poeta latino, parlò della cupedia come uno dei cinque prodotti rappresentativi di Benevento nel I secolo. Benevento era ed è conosciuta anche come la città delle cinque C, ossia Carduus et cepae, cardone e cipolle, Celebrata, la cervellata, la Cupedia, la cupeta e Chordae, le corde. Il venditore ambulante di Cupedia veniva chiamato “cupetaro”. La Cupedia classica è un composto a base di miele, albume d’uovo, mandorle o nocciole, amalgamati tra loro e cotti a bagnomaria mentre il termine torrone deriva dal latino torreo, verbo che significa abbrustolire, con riferimento alla tostatura delle nocciole e delle mandorle (da cui il termine torrefazione). Molti studiosi attribuiscono al torrone origini arabe e infatti furono loro a portare questo dolce lungo le coste del Mediterraneo in particolare in Spagna e in Italia. Un racconto, tramandato per via orale, di cui dunque non vi è alcuna traccia scritta, per cui non può essere considerata verità storica, rivela l’antichissima origine del torrone natalizio del Sannio e la diffusione che ebbe fra tutte quelle popolazioni che si trovavano affacciate su Mare Nostrum

Siamo nel periodo della seconda guerra sannitica, collocato tra il 326 e il 304 a.C.. Erano gli anni in cui la Repubblica Romana cominciava a muoversi e a lottare per mantenere una certa egemonia nell’Italia centrale, scontrandosi per più volte, come ben sappiamo, con l’esercito dei Sanniti. I Romani ne uscirono vittoriosi, eppure per la prima volta furono costretti a subire l’umiliazione della resa presso le Forche Caudine. Proprio in questa leggendaria zona, nelle famose strette di Caudium, i Sanniti umiliarono i Romani, prendendoli con una trappola, con la subjugatio, ossia l’umiliante passaggio sotto il giogo. Fu così che per la prima volta furono costretti a inchinarsi di fronte all’esercito sannita in trionfo, notizia che fece il giro del mondo e che costò all’esercito Romano una umiliazione a cui mai prima di allora era andato incontro. Una umiliazione cruda, forte, qualcosa che mai i Romani avrebbero immaginato. Avevano persino vergogna di tornare nella loro città, in mezzo a quel popolo che non li avrebbe acclamati. Un sentimento di pura vergogna, così forte che, narra la leggenda, bloccò addirittura lo stomaco ai condottieri Romani, arrivando persino a correre il rischio di morire di inedia. I Sanniti, invece, non volevano affatto considerare i Romani morti: erano vivi, o meglio, erano la viva testimonianza della loro vittoria, e tali volevano considerarli. Facendo vivere quei guerrieri sconfitti e umiliati, potevano avere avanti ai loro occhi la tangibile testimonianza della loro epica impresa. Fu per questo motivo che decisero di preparare un dolce, quello delle loro più recondite e ancestrali tradizioni, così buono e goloso da far immediatamente tornare l’appetito agli umiliati. Un dolce che potesse avere anche un aspetto consolatorio. Una ghiottoneria, come il verbo latino cupio, ossia desiderare o bramare qualcosa. E proprio per questo motivo, il nome cupedia fu dato proprio dai poveri, sconfitti Romani, un termine che nei secoli sarebbe stato mantenuto, e modificato soltanto dalle varie forme dialettali incontrate. Nomi diversi ma la stessa sostanza: miele, uova e frutta tostata chiuse da un’ostia, progenitore dell’attuale cupedia che, nelle varie zone, specie del centrosud, viene prodotta con diverse varianti, grazie all’aggiunta di altri elementi. La cupedia oggi viene cotta in una tipica casseruola in rame a forma semisferica, con il manico di legno, a base di mandorle sgusciate e pelate, zucchero e miele. L’importante è che l’aspetto del nostro torrone sia quello di una stecca di mandorle immerse nel caramello solidificato, nera, bianca o macinata, a seconda che le mandorle utilizzate conservino la loro buccia, che vengano spellate oppure pelate e tritate.