Importante località climatica e sciistica del Molise, legata all’antica pratica della transumanza, è Capracotta, a oltre 1400 m.s.l.m. che, dopo il comune abruzzese di Rocca di Cambio, è il più alto dell’Appennino. Le origini del suo nome sono legate a una leggenda ben nota in Molise e Abruzzo: sembra che alcuni zingari avessero deciso di bruciare una capra come rito di fondazione della città in cui vivevano. La capra riuscì a fuggire sui monti e lì morì, proprio dove gli stessi zingari decisero di fondare la città. Alcuni studiosi, però, sostengono che il toponimo derivi dal latino castra cocta, “accampamento militare”, riferendosi probabilmente a un distaccamento romano atto al controllo della valle del Sangro. Un borgo che ancora oggi è viva testimonianza della transumanza, con le sue strade erbose, i tratturi, storici tratti rurali che permettevano di far trasferire le greggi dall’Abruzzo alla Puglia e viceversa, a seconda delle stagioni che si alternavano. E la pezzata è ciò che rimane di questo intenso ricordo, piatto che racconta una delle memorie più nobili del Molise. Come mai questa pietanza è legata alla transumanza?
Durante i lunghi cammini nei percorsi dei tratturi, quando una pecora subiva un incidente e non poteva proseguire oltre, essa veniva sacrificata con la macellazione. Una volta depezzata (qualcuno da qui fa derivare il termine “pezzata”), gli stessi pastori la cuocevano in un capiente pentolone coperto con una pezza (potrebbe essere anche questo il motivo del nome). Quella della pezzata è una ricetta povera, caratterizzata da pochi ingredienti, quelli che raccontano la vera vita pastorale. Si tratta di uno stufato di pecora che tutt’oggi viene abbondantemente preparato e consumato, tipicità ed eccellenza di un territorio che si racconta da solo, prodotto PAT molisano, insieme ad altre specialità della zona, tra cui salumi e formaggi. Un alimento che diventava umile cibo per i poveri, che così riuscivano a integrare la loro dieta scarna, prevalentemente a base di formaggio, pane e patate. La transumanza era fortemente radicata nell’Appennino centromeridionale e veniva praticata stagionalmente tra Abruzzo e Puglia, con l’attraversamento delle regioni Molise e Campania, caratterizzando fortemente la storia e lo sviluppo delle civiltà, strutturando una complessa rete di tratturi. Con i Sanniti, queste vie erbose diventarono di rilevante importanza e fondamentali anche per l’economia, tanto che furono molti i centri e le fortificazioni a sorgere proprio lungo il loro percorso. Con i Romani, divennero un vero e proprio sistema produttivo efficiente, perché furono i primi che compresero quale enorme ricchezza potesse derivare dalla pastorizia, tanto da coniare il termine pecunia, denaro, derivante proprio dal latino pecus, ossia pecora. Attraverso i tratturi, i pastori spostavano due volte l’anno le greggi: a settembre verso le miti pianure pugliesi e a maggio alla ricerca dei verdi pascoli montani d’Abruzzo.
I tratturi hanno avuto varie definizioni: una delle più significative è quella data nel decreto del Ministero dell’Ambiente del 1976 che li definisce “beni di rilevanza archeologica, politica, sociale, religiosa, militare”. È giusto, quindi, considerarli dei monumenti, ricchi delle storie di chi li ha transitati: non solo le greggi, ma anche e soprattutto uomini, ognuno con il proprio bagaglio di esperienze: crociati, soldati, imperatori, mercanti, medici, architetti, pastori. E furono tanti i centri, piccoli o grandi borghi, nati proprio sulla confluenza di queste reti tratturali. La transumanza è stata per secoli un fenomeno non solo economico e pastorale, ma anche politico, sociale e culturale, che ha segnato in modo indelebile le regioni interessate. Lungo i tragitti interessati, sorgevano poste, masserie, mungituri, taverne e chiese rupestri.
Dunque, carne di capra, originariamente, fino a che la pezzata cominciava a essere preparata anche con la carne di pecora e agnello e non per forza dai pastori. Erano anche i residenti della zona, che spesso dedicavano la propria giornata all’agricoltura, che si cimentavano in tale attività culinaria. Essa veniva tagliata in grossi pezzi e poi bollita in un paiolo di rame posto sul fuoco. Dopo la schiumatura, che permetteva di eliminare il grasso della cottura che veniva a galla, si procedeva con l’aggiunta delle erbe aromatiche, delle patate, che sempre abbondavano nelle dispense contadine, e di qualche immancabile pomodoro. Si attendevano ore e ore affinché la carne cuocesse, a seconda dell’età dell’animale. Una cosa certa è che a cottura ultimata essa risultava soda e soprattutto con un ricco sapore. Una pietanza semplice da preparare e caratterizzata da ingredienti di facile reperibilità. La regola ferrea è che ognuno di questi sia dosato nel modo giusto, senza eccessi: solo mani esperte possono riuscire nell’impresa per non modificarne il particolare e ottimo sapore. Ancora oggi, a Prato Gentile, località sciistica di Capracotta, nella prima domenica di agosto si svolge la Sagra della Pezzata, evento che attira molti visitatori provenienti da ogni dove.
La ricetta, storica testimonianza dei vecchi pastori, è stata tramandata fino ai giorni nostri, forse con qualche leggera modifica che nel tempo è subentrata, ma con lo stesso intenso sapore di sempre. Una pietanza raccontastorie di cui vi riporto la ricetta tratta da ilgiornaledelcibo.it. INGREDIENTI: 1 kg di carne di pecora, 600 g di patate, 2 pomodori, sale ed erbe aromatiche q.b., peperoncino piccante e trito di carota, sedano e cipolla q.b. (facoltativi). PREPARAZIONE: tagliare la carne a pezzi e farla bollire in una pentola molto grande per circa 10 minuti. Prelevare i pezzi di carne e immergerli in acqua fredda, in un tegame coperto. Far bollire a fuoco medio, e di tanto in tanto scoprire per eliminare la schiuma e il grasso. Quando la maggior parte del grasso è stato eliminato, aggiungere patate e pomodori, le erbe aromatiche, il sale e gli altri eventuali ingredienti. Far cuocere fino a quando l’acqua non sarà quasi completamente asciugata, poi servire: sul fondo resterà un sughetto cremoso nel quale intingere il pane abbrustolito. Buon appetito!
Giornalista