La scarpella è un piatto molto apprezzato, rinomato, originario di quello che è il comune più vitato del Sud Italia. Ma no! Ora non è di vini, di filari e di Città del Vino che voglio parlarvi, ma di questa tradizione carnevalesca che un piccolo borgo come Castelvenere, nell’entroterra beneventano, ha conservato e tramandato. Un piatto tipico che richiama le antiche tradizioni, contadine e pastorali, riconosciuto tra i “Prodotti della gastronomia” della Campania inseriti nell’Elenco nazionale dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat). Ed è proprio qui, in questo piccolo borgo dove vigneti, uliveti, e tanto verde si perdono a vista d’occhio che non è carnevale senza scarpella, la preparazione gastronomica dalle origini antiche, a cui ogni famiglia, nel tempo, ha apportato piccole varianti. Questo è il periodo, tra l’altro, in cui non si attende solo alla festa gioiosa carnevalesca, ma in cui il piccolo paese sannita aspetta con ansia la giornata del 19 febbraio, in cui col cuore traboccante di emozione e commozione celebra il santo patrono Barbato. La nascita di questo tipico piatto del Sannio affonda nella tradizione della transumanza e dei viaggi, e per viaggi si intendono anche quelli dei pellegrini che, per secoli, hanno attraversato le terre sannite per spostarsi da Roma a Gerusalemme, o per visitare il santuario di San Michele al Gargano, o la Via Traiana per arrivare a Brindisi. Il termine Scarpèlla potrebbe indicare il diminutivo di scarpa, dal germanico skarpa (“tasca di pelle”), ma è probabile anche la derivazione dal germanico, skalk (“servo”), termine con cui i Longobardi indicavano il servitore che aveva il compito di trinciare le carni e servirle ai commensali. La parola pelle, inoltre, richiama proprio al riempimento, per cui parliamo di un piatto “riempito di carne”, da consumare prima della Quaresima. A carnevale, maggiormente, nel giorno Grasso per eccellenza del martedì.
I Longobardi arrivarono in Italia nel 568, trasformando la carta geopolitica dei suoi territori, influenzando non di poco l’identità del popolo sannita. A Benevento, nella Langobardia Minor, si stanziarono e riuscirono a integrarsi al meglio, anche grazie alla conversione al Cristianesimo per mano del vescovo Barbato, suddetto santo del borgo sannita. Già i Romani allevavano maggiormente i maiali, considerati una vera e propria ricchezza. Ed era proprio la carne suina che trionfava nelle tavolate imbandite per i festeggiamenti sacri, in cui per lo più si preparavano piatti con abbondanza di uova, formaggio, salumi, ingredienti ricchi, che davano il senso della salute e dell’abbondanza, ma che erano sempre presenti nelle dispense da viaggio dei pastori e di ogni famiglia. Non solo carne, per la scarpella, non solo uova, ma un primo piatto di pasta che può considerarsi pasto unico per la festività più festosa e colorata che ci sia. E anche questa pietanza è festosa, colorata, ricca, dal sapore goliardico ma sopraffino, che mette in evidenza tutte le materie prime e le prelibatezze che l’entroterra sannita riesce a donare. L’aspetto esterno della scarpella è molto vicino a quello di una frittata di pasta, ma in realtà si tratta di una sorta di lasagna bianca cotta al forno a legna, con ingredienti misti, variabili e legati maggiormente a prodotti di allevamento e caseari.
Un antico documento feudale di Castelvenere dice che, all’epoca, le donne del posto erano soprattutto dedite a “crescere pulli et altri animali per servitio et guadagnio di lloro Case”. Uova in abbondanza, uova che richiamano alla ricchezza gastronomica dei piatti tipici del periodo primaverile, ma anche di quello che lo precede. Una terra di allevatori, di latte e mungiture, di formaggi per i ripieni. In questo caso, il “primo sale”, uno dei beni primari della zona, era considerato merce di scambio, modalità di pagamento o baratto da parte dei pastori verso i contadini che li ospitavano nelle loro terre quando, nel periodo della transumanza, attraversavano le vie erbose sannite. Non solo primo sale, si può tranquillamente usare anche il pecorino da grattugia. E poi la salsiccia, quella carne di maiale che nel Sannio è così tanto amata, la cui lavorazione viene effettuata proprio poche settimane prima della ricorrenza carnevalesca. La pasta, poi, è la ricchezza per eccellenza di ogni dispensa, una ricchezza che accompagnava i pasti di qualsiasi genere di commensale, qualsiasi fosse la sua estrazione sociale. E la scarpella è una sorta di sformato ripieno di pasta di ogni genere, prevalentemente corta, per lo più perciatelli o mezzi ziti. Un tipico piatto di recupero del carnevale, nel periodo di transizione verso l’astinenza (carnem levare), e quindi destinato all’esaurimento di eventuali rimanenze presenti nelle dispense casalinghe in vista della Quaresima. Un piatto che richiama anche il timballo di scrippelle abruzzese, altra terra legata essenzialmente alla pastorizia, con le sue vive reminiscenze di transumanza. Dagli altopiani del Gran Sasso, infatti, partiva una grande migrazione di capi di bestiame, migliaia e migliaia, guidati da altrettanti pastori che nella stagione autunnale scendevano verso le coste dell’Adriatico, per spingersi più giù, verso la campagna del Lazio, ma anche verso il Sannio e la Terra di Lavoro.
LA RICETTA: Ingredienti: 500 gr. di pasta (perciatelli o mezzi ziti) – 250 gr. di salsiccia di maiale stagionata – 300 gr. di formaggio vaccino fresco (primo sale) – 150 gr. di formaggio pecorino stagionato grattugiato – 70 gr. di olio extravergine di oliva – 8/10 uova – sugna e sale q. b.
Procedimento: lessare la pasta in abbondante acqua, poco salata. Scolata la pasta ben al dente si condisce con l’olio extravergine di oliva, quindi si pone in una teglia unta di sugna e si aggiungono il formaggio “primo sale” e la salsiccia tagliati a dadini, il pecorino stagionato grattugiato. Alla fine si aggiungono le uova sbattute. La ricetta tradizionale prevede la cottura posizionando la teglia sui mattoni del camino e coprendola con il “testo”, un caratteristico coperchio su cui viene posizionata brace mista a cenere. Una cottura lenta che fa sì che la scarpella acquisisca la caratteristica croccantezza. L’alternativa cottura al forno (180°) richiede circa quaranta minuti. (Ricetta tratta da vinicoladelsannio.it) Il tutto accompagnato da un immancabile bicchiere di Barbera del Sannio.
Foto di copertina tratta da vinicoladelsannio.it
Giornalista