Benevento è la città campana che è avvolta da un grande alone di mistero e magia ed è legata a una serie di eventi che spesso l’hanno resa, agli occhi di chi la guarda, una città sinistra. È posizionata in una conca tra alte montagne, fitti boschi e profonde gole, circondata da due fiumi: il Calore e il Sabato. Il Sannio è sempre stato un territorio strategico per tutte le stirpi di guerrieri che qui hanno vissuto o sono passate. Anche i maestri strateghi Romani qui subirono una delle più pesanti sconfitte della loro storia.
Anticamente il nome della città di Benevento era Maloentum, latinizzato in Maleventum che sembrava portasse cattivo auspicio, nome che vede la sua origine da una radice sannita che poi mescolandosi con il latino ha dato vita a un vocabolo che risale probabilmente a un periodo precedente l’età neolitica. Qui si venerava il dio bambino Bolla, che pare abbia dato origine al fiume nella zona di Volla, nel Napoletano. In epoca imperiale, gli antichi culti sanniti legati alla stregoneria furono mantenuti e Augusto permise la costruzione di un tempio dedicato alla dea Iside, di cui in città ancora si conservano tracce, nel quale si svolgevano riti che poi andarono a fondersi con quelli dei barbari, precisamente Goti, Ostrogoti e Longobardi.
Quello dei Longobardi era un popolo pagano legato al dio Odino e per lui si svolgevano dei sacrifici con dei rituali nei pressi delle rive del fiume Sabato che si riconducono ai rituali delle Janare, donne terrene collegate alla Luna che suggeriva loro i momenti di semina e di raccolta, le quali avevano un modo di comportarsi tutt’altro che normale: venivano avvistate nei pressi del fiume Sabato ed erano solite cantare ritornelli simili a incantesimi, ballare intorno agli alberi e avvicinarsi ai serpenti uscendone illese. Inneggiavano, inoltre, anche all’uccisione di animali e questo era visti come un rituale sacrificale. La zona vicina al fiume dove le streghe si radunavano dando vita ai loro rituali magici si chiamava Ripa di Janara: qui si univano in cerchio intorno all’antico Noce di Benevento, albero alto, frondoso e sempreverde, molto nocivo anche se solitamente le proprietà di questa pianta sono di carattere curativo ed esteticamente molto particolare tanto da suscitare un certo intrigo e che aveva proprietà ed energia che pare fossero davvero molto significative e forti.
Il rito pagano, essendo loro un popolo guerriero, consisteva nell’appendere pelli di montone ai rami e colpirli con lance e frecce, mentre cavalcavano al contrario, in sella ai loro cavalli, riducendo le pelli in pezzi piccolissimi, che poi finivano per mangiare. Assistevano a tali riti anche le donne longobarde, che gridavano e incitavano gli uomini a consumare il rito. Nel rituale, le streghe usavano ungersi alcune parti del corpo per prepararsi citando l’incantesimo: “Unguento, unguento, portami al Noce di Benevento. Sopra l’acqua e sopra il vento e sopra ogni altro maltempo” e poi si davano alle danze e ai macabri rituali in cui era presente Lucifero in persona sotto le sembianze di un caprone. Si dice persino che avessero la capacità di rendersi informi e di contaminare con le loro magie i cittadini. Dopo i riti, seminavano il terrore, causando aborti, rendendo deformi i neonati, o li rapivano per poi gettarli sul fuoco.
La chiesa cattolica etichettò questa serie di accaduti come evidenti riti demoniaci, ricollegandoli ai Sabba. Per ottenere l’appoggio della Chiesa, il Duca longobardo Romualdo accettò di essere convertito al Cristianesimo e con lui, tutti i Longobardi. Il grande albero di noce attorno al quale si consumava il rito pagano per il dio Odino fu abbattuto e la leggenda narra che, appena l’albero cadde in terra, ne uscì fuori una vipera, simbolo di un legame satanico. Pare anche che nello stesso luogo il noce sia rinato. Anche dopo la conversione, i Longobardi di Benevento non rinunciarono ai loro riti pagani e continuarono a praticarli di notte. Intorno alle campagne, fuori dalle mura, tra fuochi e grida. Gli abitanti di Benevento scambiarono gli uomini e le donne longobarde con demoni e streghe. Le notti dei Sabba continuarono, solitamente nelle notti tra il sabato e la domenica.
Le Janare nacquero la mezzanotte di Natale e non avevano ricevuto il sacramento della cresima in modo corretto a causa, per esempio, di errori di formule da parte del sacerdote. Il loro nome deriva da Dianara, la sacerdotessa di Diana, dea della Luna. Di giorno si confondevano tra le donne comuni, sebbene avessero un carattere aggressivo, e la notte si ricoprivano dell’unguento magico, da loro creato, che consentiva loro di volare e di diventare incorporee. Erano streghe solitarie al contrario delle altre che la notte usavano dedicarsi a banchetti, danze, orge con il Diavolo prima di maledire e torturare i malcapitati. Riuscivano a creare da sole il loro unguento che le rendeva incorporee perché erano esperte in fatto di erbe medicamentose e sapevano riconoscere le erbe con poteri narcotici oppure stupefacenti che usavano nelle loro pratiche magiche. Avevano un carattere aggressivo e acido e, secondo la tradizione, per poterle acciuffare bisognava afferrarle per i capelli, loro punto debole e alla domanda “che tie’ ‘n mano?”, bisognava rispondere “fierro e acciaro” in modo che non si potessero liberare; se al contrario si fosse risposto “capiglie”, cioè capelli, le Janara avrebbe risposto “e ieo me ne sciulie comme a n’anguilla”, e si sarebbero così liberate dandosi alla fuga. Inoltre si diceva che a chi fosse riuscito a catturare una janara quando era incorporea ella avrebbe offerto la protezione delle janare sulla famiglia per sette generazioni in cambio della libertà. A loro si deve anche la sensazione di soffocamento nel sonno perché si recavano nelle case di coloro verso cui nutrivano del risentimento, passando da sotto la porta, si sedevano sul petto del malcapitato mentre dormiva, impedendogli di respirare. Andavano a far visita alla stessa persona per tre notti di seguito, per poter rinsaldare il maleficio. Proprio per la loro capacità di passare sotto le porte, si pensa che il loro nome derivi dal latino Ianua, porta. Per questo si era soliti lasciare una scopa o del sale sull’uscio: la strega avrebbe dovuto contare tutti i fili della scopa o i grani di sale prima di entrare, ma nel frattempo sarebbe giunto il giorno e sarebbe stata costretta ad andarsene. I due oggetti hanno un valore simbolico: la scopa è un simbolo fallico contrapposto alla sterilità portata dalla strega, il sale si riconnette con una falsa etimologia alla Salus. Alcune notti rubavano i bambini e li rendevano storpi e solevano intrufolarsi nelle stalle e cavalcare le giumente fino a che, per lo sfinimento, queste morivano. Per lasciare traccia del loro passaggio, facevano delle treccine al crine delle cavalle. Durante le persecuzioni delle streghe, le Janare di Benevento erano indicate come origine del male ed esseri da sterminare.
In molti paesini del Sannio beneventano esistono svariate storie sulle janare che però si assomigliano molto tra di loro. Si narra di un boscaiolo beneventano che, passando di notte per uno dei posti delle janare, ebbe lo spiacere di assistere al Sabba, la cerimonia in cui si venerava Satana e ogni simbolo cristiano veniva messo al contrario. Egli, spaventato, corse a casa e raccontò alla moglie tutto ciò che aveva visto: donne che calpestavano la croce, altre che con alcuni uomini si dedicavano alle orge più sfrenate e altre ancora che si cospargevano di sangue e un cane orrendo che sedeva su un trono. La mattina dopo quell’uomo fu trovato ucciso. Una storia correlata alla figura delle janare è quella che identifica un metodo infallibile per riconoscerle quando sono in sembianza umana: basterebbe recarsi alla messa della notte di Natale, vedere chi sono le ultime donne a uscire dalla chiesa e riconoscere in loro le Janare che, per una sorta di legge del contrappasso, partecipavano al rito cristiano. Altre streghe beneventane erano le Zoccolare, che con i loro zoccoli ai piedi infestavano il Triggio, la zona del teatro romano, e cavalcando, correvano e rapivano chiunque capitasse loro a tiro. Vi era, poi, la Manolonga, Maria la longa, una donna che era morta cadendo in un pozzo e, poiché non aveva trovato pace, si divertiva a tirare giù nel pozzo chi si affacciava.
La prima traccia storica si ritrova in uno scritto in cui Bernardino da Siena racconta che nell’anno 1427 si era recato a Roma: “Elli fu a Roma uno famiglio d’uno cardinale, el quale andando a Benivento di notte, vidde in sur una aia ballare molta gente, donne e fanciulli e giovani; e così mirando, elli ebbe grande paura”. In quegli anni iniziava proprio da Roma, capitale della cristianità, la persecuzione delle streghe che avrebbe insanguinato mezza Europa per secoli. San Bernardino da Siena, nei suoi sermoni dedicò una particolare attenzione alle donne che conoscono la medicina naturale, come le levatrici, le erboriste, le indovine e le addita pubblicamente come nemiche della chiesa, alleate del demonio e responsabili di terribili misfatti come carestie, pestilenze, morti premature, sventura. Nel 1486, la pubblicazione, del Malleus Maleficarum, diede un’ulteriore spinta alla caccia delle streghe. Questo trattato, infatti, spiegava come riconoscerle, processarle e interrogarle efficacemente tramite le più crudeli torture. Fu così che tra il XV e il XVII secolo furono estorte numerose confessioni di supposte streghe. Tra gli elememti comuni si ritrovano il volo, il succhiare il sangue dei bambini e nella massima parte dei casi le streghe erano bruciate, mandate al patibolo o comunque punite con la morte con metodi più o meno atroci. Nel XVII secolo ci si rese conto che non potevano essere veritiere le confessioni fatte sotto tortura e in epoca illuministica si fece strada un’interpretazione razionale della leggenda, con Girolamo Tartarotti che nel 1749 spiegò il volo delle streghe come un’allucinazione provocata dal demonio, o Ludovico Antonio Muratori che nel 1745 affermò che le streghe sono solo donne malate psichicamente.
Giornalista