Immagini dal Sannio: leggende e credenze dell’immaginario molisano

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Il Molise, con le sue credenze ben radicate alla tradizione e alla memoria collettiva, è puntellato da piccoli, antichi borghi e ognuno di loro ha una particolare storia da raccontare. A volte questi sono legati a passati misteriosi, a racconti che vengono ripresi anche dai territori limitrofi, spesso le loro origini vengono contese tra la piccola regione molisana e quelle confinanti. Terra di mari, di castelli, di montagne, boschi e storie a volte mai raccontate, il Molise lascia a bocca aperta quando si tratta di tradizioni. La leggenda del Re Bove è forse la più nota e proviene da una delle chiese più antiche della intera regione, quella di Santa Maria della Strada di Matrice, in provincia di Campobasso. Un re di nome Bove è il protagonista della storia, il quale, nell’iconografia sacra, è sempre stato rappresentato con fattezze bovine. Questi era perdutamente innamorato di sua sorella. Una relazione incestuosa, se avesse avuto luogo, per cui il re decise di rivolgersi al papa affinché potesse ottenere il permesso di sposarla. Il papa disse che avrebbe potuto farlo a una condizione: solo se il re fosse riuscito a edificare, nell’arco di una sola notte, cento chiese di una certa forma e grandezza, visibili l’una dall’altra. Il progetto era più che impossibile, non sarebbe mai riuscito nell’impresa, neanche se tutti i suoi sudditi lo avessero aiutato. Eppure, a causa del folle desiderio nei confronti della sorella, egli accettò le condizioni del pontefice. Decise, però, di rivolgersi al demonio, in cerca di aiuto. Il diavolo si disse disponibile, ma in cambio chiese l’anima del sovrano. Durante la notte i due lavorarono sodo per poter portare a termine la costruzione delle cento chiese: il demonio faceva ruzzolare dal monte i macigni, il re, invece, li poneva uno sopra l’altro. Quando albeggiò erano arrivati a novantanove chiese, ma prima di ultimare la centesima, il re Bove si pentì di quell’aiuto peccaminoso che si era concesso, ossia l’intervento del diavolo, e cominciò a pregare Dio per ottenere il perdono. Il demonio si adirò profondamente e scagliò un enorme masso contro l’ultima chiesa, quella che stavano per ultimare, ossia quella di Santa Maria della Strada. Venne colpito il campanile, e il masso stesso rimbalzò a poca distanza dall’edificio. Ancora oggi è possibile vederlo, il masso del diavolo, così come viene chiamato. Quando morì, re Bove venne sepolto proprio nella chiesa di Santa Maria della Strada. Secondo la leggenda, solo sette edifici sono sopravvissuti nel tempo: Santa Maria di Monteverde, Maria Santissima Assunta di Ferrazzano, San Leonardo di Campobasso, Santa Maria di Cercemaggiore, Santa Maria della Strada e la cattedrale di Volturara Appula. Nulla si sa della settima edificazione.

La chiesa di Santa Maria della Strada a Matrice, foto tratta da francovalente.it

Un essere perfido e dalle fattezze poco rassicuranti, che è diffuso anche nelle regioni limitrofe, è la Malombra, o Mal’umbra. Si tratta di uno spettro che è solito mettersi sul petto dei dormienti, e col suo peso ne blocca il respiro, fino a ucciderli. Davvero tremendo, questo personaggio della leggenda molisana, che potrebbe essere relazionato al Mazzamauriello, ma a torto: quest’ultimo, infatti, era un personaggio perlopiù campano, dispettoso certamente ma buono e portatore di fortuna. Il modus operandi della Malombra, invece, la accomuna ad altri spiritelli di cattiva fattezza delle terre italiche. La Malombra è solita vivere nei pressi delle case, apportandovi molta sfortuna, e divenendo così la causa di molti incidenti domestici. Per fortuna esistono diversi modi per bloccare la sua nefasta influenza: ad esempio, si può mettere la classica scopa fuori alla porta, quella di saggina che allontana le streghe. La Malombra si attarderà a entrare proprio per contarne i fili di paglia, proseguendo così fino all’alba, la cui luce annullerà il suo malefico potere. Oppure si potrebbe lasciare un paio di forbici vicino al letto o sotto al materasso: sarebbe un modo diretto e celere per difendersi nel caso in cui le sue dita possano tentare di stringerci la gola.

Il cantone della fata di Castropignano – Anche in questo caso siamo in provincia di Campobasso, su una grande roccia posizionata sul suggestivo Castello d’Evoli, nel Cantone della Fata. Per le sue dimensioni, la roccia è ben visibile in mezzo alla fitta vegetazione, ma il luogo, che si trova in una posizione più bassa rispetto al castello, è raggiungibile solo percorrendo la strada che da Campobasso conduce verso Castropignano. Un’antica leggenda molisana, che si ritrova in altri borghi regionali, tra cui Bagnoli del Trigno. narra che in epoca feudale vivesse a Castropignano una ragazza talmente bella da essere chiamata la fata, la quale era la promessa sposa di un fortunato giovane del luogo. All’epoca, però, vigeva la legge dello ius primae noctis: il diritto da parte del signore feudale, in questo caso un duca, di poter trascorrere la prima notte di nozze con la moglie di un suo servo. E sembra che lo imponesse a tutte le novelle spose. La giovane “fata” non voleva assolutamente sottoporsi a tale sopruso, una legge davvero tremenda, per cui si diede alla fuga e alla fine si lanciò nel vuoto, proprio dalla roccia sopra citata. La giovane si sottrasse, così, al disonore, per amore dell’uomo amato. Si narra che nei pressi della roccia, durante le notti di luna piena, sia ancora possibile vedere e sentire il fantasma della giovane. Il suo corpo spettrale viene trasportato, in questi casi, dalle fate dei boschi circostanti.

Palazzo Nuonno è un bellissimo e storico edificio sito in Agnone, in origine conosciuto come Palazzo dei Conti Minutolo, costruito tra il 1100 e il 1200. Una targa apposta sull’edificio da parte dell’Ente comunale e dell’Ente Provinciale per il Turismo afferma che “è detto anche palazzo dei fantasmi, per i fatti e i fenomeni strani che si narrano”. Si dice che sia la dimora di fantasmi e spiriti maligni. Il Palazzo, fino al 1796, era abitato dalla famiglia dei Colucci, predecessori dei Nuonno. I Colucci, secondo la leggenda, furono i primi ad abbandonare l’edificio, proprio perché era infestato dagli spiriti. I Nuonno così , vedendolo abbandonato ed essendo loro stessi all’oscuro dei fatti, decisero di acquistare l’edificio: anche loro, però, si videro costretti a scappare disperati. Fu così che il Palazzo venne lasciato abbandonato, ancora una volta senza padrone. Eppure è arrivato integro fino ai giorni nostri. Nessuno sa chi o cosa si nasconda realmente al suo interno. Sembra che in tempi lontani la struttura abbia ospitato orge e riti satanici con dodici coppie fisse. Entro la mezzanotte compariva la tredicesima coppia, quella del diavolo. Una notte il pavimento cedette e tutti i presenti morirono, ma negli anni a venire ricomparvero sotto le sembianze di spettri. Una caratteristica del Palazzo è che si trovava in posizione di collegamento tra un convento di suore e uno di frati, collegati grazie a una galleria. E proprio nel Convento delle Suore di Santa Chiara furono rinvenuti i resti di tantissimi feti, probabilmente frutto di rapporti clandestini e delle orge che un tempo vi avevano luogo. Ancora oggi sono molte le testimonianze e le segnalazioni di strani avvenimenti nell’edificio. Le persone che vivono nel circondario affermano di sentire, talvolta, urla, passi di danza e musiche. Qualcuno racconta di una carrozza fantasma avvistata nei pressi e alcuni utenti di Facebook discussero di una foto che ritraeva una sagoma dietro le finestre: il fatto è che non vi sono finestre, né vetri, perché queste sono murate.

Paolaccio era un vagabondo senza famiglia, né casa né amici, con una luce cattiva negli occhi. Gli piaceva vivere così, non faceva alcun tentativo di procurarsi un lavoro ed era disprezzato da tutti, perché voleva soltanto trascorrere il proprio tempo a imprecare e a offendere chiunque gli capitasse a tiro. Un giorno, mentre dormiva in un campo nei pressi di Termoli, venne svegliato da una voce che lo chiamava per nome: era la voce del diavolo in persona che gli fece una proposta molto allettante: avrebbe potuto diventare ricco in cambio della sua anima. “I pesci che ti farò pescare io, sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete: Fortuna, vieni su, te l’ordino nel nome del grande Belzebù”. Paolaccio accettò e fu così che si procurò una rete e andò verso gli scogli, immergendola e recitando una litania. Quando la ritirò vide che effettivamente era piena dei pesci descritti dal diavolo: ognuno di essi era pieno di smeraldi, rubini, monete e lingotti d’oro e ogni forma di ricchezza. Da quel momento il tenore di vita di Paolaccio cambiò radicalmente: riuscì a comprare un palazzo lussuoso e principesco, organizzava feste sontuose, si circondò di ogni fasto e lusso. Divenne più buono, mostrando assoluta generosità con tutti, e pensò di essere diventato una grande persona. Un giorno però, proprio durante una delle sue feste principesche, bussò al portone del Palazzo uno strano individuo, vestito di stracci. Paolaccio lo riconobbe: era Belzebù che era arrivato a prendere la sua anima. L’uomo, impaurito, tentò di mandarlo via, ma il diavolo gli ricordò il patto che avevano fatto. Fu così che si sentì un grande boato e Paolaccio cadde a terra senza vita. Alcuni pescatori affermano che i pesci bianchi e rosa esistano davvero ma che sia meglio evitare di pescarli, in quanto creature del Demonio, portatori di rovina e cattiva sorte. Piuttosto, meglio guardarli da lontano.

Foto di copertina: rappresentazione di Paolaccio, tratta da monstermovieitalia.com

Uno dei più antichi riti molisani è quello dell’Uomo Cervo, detto anche Gl’Cierv. A Castelnuovo di Volturno, ogni anno, si tiene il cosiddetto Carnevale dell’Uomo Cervo, ispirato ai Lupercalia romani e che prevede una sfilata di maschere. L’Uomo Cervo è ricoperto di pelli di capra a cui sono legati dei campanacci, con il volto e le mani dipinte di nero e indossa delle grandi corna, proprio come l’animale che rappresenta. Il Cervo percorre le strade del paese, illuminato dalle fiaccole e sostenuto dai rulli di tamburo, suscitando timore tra gli abitanti. Non è possibile stabilire con esattezza l’origine del rituale, ma si presume che sia antichissima: si tratta di una pantomima che descrive aspetti tipici della vita primordiale. Con un tintinnio di più campanacci che proviene dalla montagna, si fanno largo le Janare, streghe dai lunghi capelli, succhiatrici di bambini, le quali annunciano il terribile rito che si sta per rinnovare, assieme al Maone, stregone della tradizione locale. Seguono villane, villani e zampognari che, al suono delle cornamuse molisane, sfilano finché un grido risuona nell’aria: “Gl’ Cierv’! Gl’ Cierv”! Giunge così il Cervo, il protagonista, un attore coperto di pelli e con grandi corna ramificate sul capo, volto e mani dipinti di nero che ostenta forza e cattiveria. Irrompe nella piazza distruggendo tutto ciò che incontra nel suo cammino e aggredisce la gente finché non entra in scena una Cerva con un pellame più chiaro e movenze più aggraziate con cui comincia il corteggiamento. Arriva poi dalla montagna Martino, una sorta di mago dal cappello a punta vestito di bianco, che immobilizza gli animali, che rappresenta il Bene e cerca di arginare la furia delle Bestie legandoli con una corda, nonostante i Cervi riescano a liberarsi delle corde e ricomincino a terrorizzare la gente. Soltanto l’intervento di un Cacciatore, che rappresenta il giustiziere, riesce a fermare le distruzioni violente degli animali, e le Bestie si accasciano in un improvviso silenzio. Il Cacciatore si avvicina ai due corpi, si china e soffia nelle loro orecchie e, come per incanto, le Bestie rivivono liberate dal Male. Viene quindi acceso un grande falò purificatore, il Bene che vince sul Male. Spesso viene accompagnato da una dama, anch’essa cornuta. Dopo l’Uomo Cervo non può mancare l’Uomo Orso! Siamo ancora nel periodo del Carnevale, precisamente il 12 marzo. Nella cittadina di Jelsi, in provincia di Campobasso, luogo di cacciatori già nella preistoria, come dimostrano alcuni reperti, prende vita la Ballata dell’Uomo Orso, “U’ Ball dell’Urz”, tipico rito propiziatorio nel passaggio tra due stagioni, a fine inverno. Si esibiscono caratteristiche maschere zoo-antropomorfe, simili alle citate figure di diavolo e cervi. A un orso, tenuto alla catena da un domatore e da un aiutante, viene ordinato di ballare sotto la minaccia di percosse con un bastone. Tra accenni di ribellione e passi di danza si diffondono per tutto il paese le note di improvvisati musicisti. Il gruppo percorre allegramente tutti i vicoli dell’antico borgo, bussa alle porte delle case e le famiglie ospitanti offrono da bere e da mangiare. In particolar modo, il ballo dell’Uomo Orso trova la sua origine in alcune cerimonie invernali di fertilità il cui significato più profondo sta nella visione popolare-contadina della morte della natura, condizione necessaria perché possa rinascere la vita con tutte le promesse di abbondanti raccolti. Per alcuni studiosi, il significato di questo rito lo si riconduce a una trasfigurazione del sacrificio del capro espiatorio, che con la sua morte purga la comunità. La manifestazione fu interrotta con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale ed è stata riproposta solo a Carnevale del 2008 per merito del regista Pierluigi Giorgio il quale già nel 1993 aveva riportato alla vita quella del Cervo a Castelnuovo. Questo lavoro di riscoperta è stato svolto attraverso una raccolta di informazioni ricavate dai ricordi e dalle testimonianze degli anziani del paese.

Landoro era una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. Il forte rumore che procurava la sua voce, accompagnata da terribili azioni, faceva in modo che venisse ascoltato dai pescatori anche da lontano. Erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi nessuno aveva mai affrontato il mostro per liberare le acque. Una dolce e bella fanciulla bionda, di nome Lada, amava trascorrere le sue giornate sul litorale marino e con occhi sognanti era solita osservare l’orizzonte. Il suo sogno era quello di possedere un paio di ali: desiderava ardentemente volare come i gabbiani, in libertà sulle onde placide o increspate. Il desiderio era talmente forte e vivo che un giorno davvero le spuntarono le ali. Una gioia immensa, quella di Lada, che subito cominciò a volare sopra l’immensa distesa marina. E così facendo, mentre beata canticchiava, guardando in basso, Lada vide Landoro, quel mostro dai giganteschi occhi, di cui subito fu impaurita ma che allo stesso tempo la faceva sentire inspiegabilmente attratta. Quando il drago la vide, subito si inabissò. Lada scese sul litorale e cominciò a placare la sua ansia; eppure, cominciò però a piangere disperata, evidentemente ancora spaventata. Sentì una voce che le chiese cosa fosse accaduto: nel girarsi, Lada vide un bellissimo giovane a cui si sentì di voler raccontare la sua tremenda avventura. Il giovane era Geri, figlio della Quercia e del Vento e promise alla fanciulla di uccidere Landoro per permettere a Lada di volare libera e senza alcuna paura nel cielo. Fu così che la giovane donna, nel vedere il giovane andare con un pugnale verso il mostro, si addormentò. Al suo risveglio, il mare era diventato rosso, così la sabbia, le sue mani, le sue ali. Geri aveva ucciso il mostro e tutti e due gioirono di felicità. La verità è che il mostro non morì: dal mare, infatti, cominciarono a giungere dei segni strani. L’aria si fece irrespirabile, i pesci cominciarono a morire e la gente si sentì smarrita. Fu quella la vendetta di Landoro che cominciò a uccidere tutti, anche i due giovani. Dopo molti, moltissimi anni, la vita ricominciò a nascere, sbocciando da un piccolo fiore che si trovava sulla sponda del fiume. I suoi petali, pian piano, si trasformarono in esseri viventi e la terra, con calma e con un nuovo senso di pace e serenità, riprese a rianimarsi e a vivere. Per sempre, fino al giorno di oggi. E domani, e ancora e ancora.









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