Capracotta è una nota e importante località climatica e sciistica del Molise, sita a oltre 1400 m.s.l.m. e, dopo il comune abruzzese di Rocca di Cambio, è il paese più alto dell’Appennino. Le origini del suo nome sono legate a una leggenda che racconta che alcuni zingari avessero deciso di bruciare una capra come rito di fondazione. La capra fuggì sui monti ove morì, proprio nel luogo in cui intendevano costruire la città. Secondo alcuni studiosi, però, Capracotta deriverebbe dal latino castra cocta, accampamento militare, riferendosi probabilmente a un distaccamento romano che ebbe lì la sua sede di controllo nella valle del Sangro.
Proprio nel bel territorio del centro sannita sorge il Giardino della Flora Appenninica, costituito nel 1963 come Campo Sperimentale per le Piante Officinali, per volontà del Professor Valerio Giacomini, promotore della conservazione attiva, realizzato inizialmente dal prof. Paolo Pizzolongo dell’Università di Napoli. Si trova a ben 1525 m.s.l.m., ed è il giardino tra i più alti d’Italia.
Il suo simbolo è l’Acero di Lobelius, albero diffuso in situ ed esclusivo dell’Appennino centro-meridionale. Nel 1997 l’Amministrazione Comunale di Capracotta stipulò una convenzione con l’Università del Molise – Facoltà di Scienze, affinché il Giardino potesse usufruire del supporto scientifico indispensabile per un rilancio delle attività, finalizzate alla didattica, volte alla ricerca e all’ecoturismo. E proprio il Consorzio, costituito nel 2003 dall’Università degli Studi del Molise, la Regione Molise, la Provincia d’Isernia, la Comunità Montana dell’Alto Molise e il Comune di Capracotta, ne assicura la promozione e la gestione attraverso il Dipartimento S.T.A.T. della Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali dell’Università degli Studi del Molise con sede a Pesche (IS). Il Giardino è impegnato in diversi progetti di ricerca e di conservazione della biodiversità. Conservazione in situ vuol dire ricostruzione di habitat naturali e recupero di piante selvatiche rare e tutelate. Insomma, si parla di un orto botanico naturale, in cui vengono conservate e tutelate le specie vegetali della flora autoctona dell’Appennino centro-meridionale. E sono davvero tanti gli habitat naturali qui presenti, dal palustre al rupicolo, dalla faggeta all’arbusteto.
Il Faggio è uno degli elementi dominanti del Giardino, maestoso ed elegante, con la sua corteccia liscia, la folta chioma e rami snelli. Costituisce il principale componente del sito ma a esso si accompagnano anche altri alberi e arbusti, come il Tasso, il Ranno alpino e il Sorbo degli uccellatori, così chiamato perché i cacciatori ne utilizzavano i frutti carnosi per catturare i tordi. La vegetazione palustre è poco frequente negli Appennini, ma è caratterizzata da una flora di grande interesse naturalistico. L’elevata presenza di acqua permette la crescita e lo sviluppo di alte erbe a foglia larga dette megaforbie; tra queste l’Olmaria comune e la Valeriana officinale che possono raggiungere il metro e mezzo di altezza. Troviamo anche il Ranuncolo strisciante, con i suoi tipici fiori giallo lucidi, il Giunco tenace e il Senecione alpino. Splendide e numerose, le fioriture delle Orchidee e della rara e protetta Calta palustre. L’Abete bianco, altro elemento tipico della zona, si riconosce grazie al portamento maestoso con la chioma slanciata. La sua altezza può raggiungere i 50 metri.
Numerosi sono gli alberi morti in piedi, spezzati o sradicati, a causa del vento, della neve, della siccità, degli attacchi parassitari di funghi e insetti e dell’azione distruttiva dell’uomo, tramite incendi, tagli, inquinamento. Il legno morto difende il suolo dall’azione erosiva dell’acqua piovana, favorisce la formazione di humus per la rinnovazione naturale del bosco, costituisce una fonte stabile di sostanze nutritive nel suolo, di cibo e protezione per numerosissimi organismi.
Un settore del Giardino ospita varie specie entomologiche locali e un’altra, invece, ospita piante introdotte, gran parte delle quali ottenute attraverso un’attenta raccolta e germinazione dei loro semi. Ecco, ad esempio, la Sassifraga del Gran Sasso, lo Spillone della Majella e la Peverina di Thomas, il Papavero alpino, la Cinquefoglia di Crantz. L’Università degli Studi del Molise, tra l’altro, e l’ARSIAM conducono studi e ricerche per la conservazione, la valorizzazione e il recupero delle varietà di leguminose locali, tra le quali la lenticchia di Capracotta e di Conca Casale e il fagiolo di Riccia, un tempo largamente coltivate nella regione, ma anche il cece, la fava, la cicerchia. Una parte dei legumi raccolti viene conservata nella Banca del Germoplasma del Molise, al fine di preservarne e custodirne la diversità genetica. Il Giardino, dunque, rappresenta un patrimonio unico, uno straordinario centro di conservazione, ricerca e formazione, un vero e proprio fulcro nel quale concentrarsi per la valorizzazione del territorio.
È un luogo molto amato da studiosi e cittadini, ma anche dai visitatori di tutta Italia che amano percorrere un iter all’insegna dell’accessibilità e della sostenibilità. Molte le scolaresche che fruiscono di questo prezioso bene per partecipare a progetti e percorsi didattici.
Giornalista