Immagini dal Sannio: l’osco, antica lingua dei Sanniti

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In copertina, la Tabula agnonensis, immagine di repertorio

Non è che sia così semplice disquisire di osco e di lingue antiche in generale: è un argomento complesso, che lascio volentieri ai linguisti, ma che cerco di raccontare almeno per sommi capi. Non basterebbe un buon libro di linguistica storica, né un unico trattato sulle lingue indoeuropee per poter entrare nel dettaglio di un argomento così articolato ma allo stesso tempo affascinante. Partiamo innanzitutto dalla definizione di lingue italiche, quelle che fanno parte di un gruppo di lingue collegate, o meglio, imparentate tra loro, all’interno del ceppo indoeuropeo. Queste ricoprivano un vasto territorio, tra cui la zona centromeridionale dell’Italia, fatta eccezione per le aree di Lazio e Puglia in cui, rispettivamente, si parlava il latino e il messapico. Il volgo italico viene anche definito osco/umbro: stiamo parlando di una vulgata in uso tra il VI e il V secolo a.C., fino all’avvento della romanizzazione, o latinizzazione.

Il termine osco deriva dal popolo che precedette i Sanniti. La parola si riferisce alla lingua parlata da popolazioni che vivevano nel Sannio, una lingua autonoma che nel tempo assunse una grammatica e un’ortografia elaborata e ben definita. Era parlata anche in Lucania e nel Bruzzio, l’attuale Calabria. Se consideriamo l’intera Campania, l’alfabeto deriva da un modello principalmente etrusco, mentre nella zona sannita è un adattamento dell’alfabeto greco, e in seguito latino. Etrusco e greco, dunque, le lingue di quei popoli colonizzatori per motivi bellici oppure per motivi commerciali. Il sannita è stato definito come lingua di una koinè greca. La koinè (κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”, κοινὴ ἑλληνική “[lingua] greca comune”) è un antico dialetto greco e forma la terza tappa della storia della lingua, racconta Wikipedia, formatasi nel Sannio nel V secolo a.C. e di lì irradiatasi. I metodi di declinazione, ma anche la coniugazione o il genere, la fonologia, la morfologia o l’ortografia, sono di stampo latino. Wikipedia ci fa questo esempio: “… il verbo latino volo, volui, velle, e altre forme simili provenienti dalla radice del proto-indoeuropeo *wel- (‘volere’) erano rappresentati da parole derivate da *gher- (‘desiderare’): l’osco herest (‘desidererà, vorrà’) in contrasto con il latino vult. Il latino locus (luogo, posto) era assente e rappresentato forse da slaagid, hapax presente nel Cippus Abellanus variamente etimologizzato e recentemente ricondotto a un toponimo sovrapponibile all’antica forma osca”. La forma più evoluta dell’alfabeto si raggiunse nel III secolo, e in quel periodo le lettere erano 21, con un andamento grafico che procedeva da destra verso sinistra, ossia sinistrorso.

Di questa lingua si possiede una ricca e multiforme documentazione epigrafica, tra cui, per citarne solo alcune, il Cippo di Abella, la Tabula Agnonensis, le Iovile, le Fabulae Atellanae, le iscrizioni pubbliche di Pietrabbondante. Il Cippo abellano, noto anche come Cippus abellanus, è una lapide calcarea contenente iscrizioni in lingua osca risalente alla prima metà del II secolo a.C. Fu ritrovato nel territorio dell’antica città sannita di Abella ed è custodito nel Seminario arcivescovile di Nola. L’iscrizione è un trattato fra le città di Abella e Nola per la demarcazione dei confini: fino ad allora non erano stati ben definiti e, con molta probabilità, i Nolani sconfinavano nel territorio di Avella e gli Avellani in quello nolano. La Tabula Agnonensis, meglio conosciuta come Tavola Osca, ma anche come Tavola degli Dei, è una lastra di bronzo del III secolo a.C., ovviamente in lingua osca, rinvenuta a Capracotta. Fu scoperta nel 1848 in località Fonte del Romito, al confine con il comune di Agnone. Un contadino, tale Pietro Tisone, durante l’aratura, scoprì il prezioso reperto che immediatamente venne sottoposto all’osservazione dei fratelli Saverio e Domenico Cremonese. Theodor Mommsen studiò l’importante reperto come testimonianza della lingua italica nel Sannio. La tavola nel 1873 fu venduta al British Museum di Londra, dove oggi è conservata. Nel testo viene descritto un sacro recinto dedicato a Cerere, la dea della fertilità, a cui durante l’arco di un anno erano dedicate festività sacre. Il santuario principale dei riti del popolo sannita descritti nella Tabula è stato individuato nel tempio italico di Pietrabbondante, vicino ad Agnone. Le Iovile sono iscrizioni in terracotta o di tufo e risalgono a un arco di tempo che va dalla metà del IV secolo alla fine del III secolo a.C.. Il loro nome deriva da un vocabolo che ricorre con molta frequenza: iuvilas o diuvilas, indicante le “cose materiali” o con stele e reperti che provengono dagli scavi di Capua.

Comparazione di antichi alfabeti, immagine di repertorio

L’atellana fu un genere di commedia dai toni farseschi, originariamente in dialetto osco, in uso già dal IV secolo a.C.. Si trattava di una rappresentazione di carmi mimati. Questo primitivo tipo di spettacolo teatrale, giocoso e licenzioso, sorse presso gli Osci di Atella (da cui prese il nome), città campana nella zona dell’attuale Orta di Atella. Fu importata a Roma nel 391 a.C. come ci racconta lo storico Tito Livio. Le fabulae erano molto popolari fra i Romani. I maggiori autori latini di atellana furono Gneo Nevio, Lucio Pomponio, Quinto Novio, Aprissio. Molto probabilmente, anche Plauto, maggiore esponente della commedia latina, compose alcune fabule del genere. Per finire, i più recenti scavi condotti a Pietrabbondante hanno portato alla luce iscrizioni osche, epigrafi, che vanno ad aggiungersi a quelle rinvenute tra il 1840 e il 1859. La maggior parte di queste, su pietra calcarea è prevalentemente composta da testi di carattere ufficiale riguardanti gli aspetti burocratici degli interventi di costruzione e sistemazione del monumento, oltre ad armi, tra cui elmi e scrinieri di elevata fattura.