“Uocchi, contruocchi schiatam ‘a mira e crepame l’uocchi”. Per quelli che ci credono, il malocchio è un maleficio che può essere gettato per invidia da chiunque su qualcun altro e che procura, a chi lo riceve, dolorosi e ricorrenti mal di testa, ma anche perdita di energia, sonnolenza, stanchezza, nervosismo. Tutto nasce da un particolare tipo di sguardo, un forte potere che risiede negli occhi di chi guarda la propria “vittima”. È pur vero che non sempre il malocchio è un fenomeno volontario, ritenendo che talvolta la persona che lo lancia lo fa in modo del tutto inconsapevole. È uno dei rituali più antichi nella storia dell’umanità, e può essere scacciato con un miscuglio di litanie e invocazioni che mischiano paganesimo e religione. Solo una donna che sa toglierlo può liberarcene, con un rito che solitamente viene tramandato durante la notte della vigilia di Natale, quando la nonna, in una riunione segreta di sole donne, spiega alle nipoti il rito e tramanda le formule da recitare per scacciarlo.
Si riempie un piatto d’acqua che viene ripetutamente passato sul capo della persona afflitta da mal di testa mentre si recita un susseguirsi di preghiere e formule incomprensibili. L’officiante, altresì, intinge il dito indice nell’olio d’oliva e ne fa cadere ogni tanto una goccia nel piatto colmo d’acqua. Le gocce spesso si allargano sino a sciogliersi, a volte assumendo forme strane, altre invece restano intatte e ben definite. Secondo la tradizione, se le gocce d’olio si allargano o si sciolgono sino a scomparire significa che la persona cui si sta togliendo il malocchio ne è effettivamente affetto, se invece le gocce restano integre significa che il dolore accusato è dovuto ad altre cause. A volte, addirittura, dalla forma assunta dalle gocce d’olio che galleggiano sull’acqua, nel piatto, si può risalire all’autrice o all’autore del malocchio.
In una terra di streghe e janare come quella sannita probabilmente qualche influsso magico o qualche spiritello, buono o cattivo, sono sempre in agguato, qua e là. Sono varie le leggende e i miti che popolano le case del Beneventano. Potrei raccontarvi di streghe e di janare, oppure di personaggi, entità malefiche o a volte portafortuna, che animano le leggende del nostro territorio. Avete mai sentito parlare, per esempio, dei monacielli? Potrebbero suonarvi, nella vostra memoria, come di presenze tipicamente partenopee, e non avete torto.
Una presenza sannita, ma anche irpina, che comunque molto richiama la figura del monacello è proprio quella del mazzamauriello o scazzamauriello.
Mazzamauriello etimologicamente vuol dire spirito che “ammazza i mori o morelli” (matas moros), cioè i nemici, e quindi è provvidenziale per la casa in cui entra. Se il monacello, a Napoli, rappresenta il fantasma di un monaco, per cui una entità molto buona, il mazzamauriello, folletto tipico della letteratura irlandese, è un bel po’ dispettoso, ma sotto sotto buono. Il personaggio entrò in Italia al seguito dell’avvento dei Normanni, riportato dalla tradizione leggendaria inglese e per l’appunto irlandese. Quando in casa c’è un mazzamauriello si vive con l’ansia tipica di chi si sente osservato e perennemente sotto pressione, Si nasconde, fa rumore, nasconde i nostri oggetti, ci fa spaventare e mai si fa trovare. Solitamente, la notte si diverte a disturbare il sonno delle persone producendo rumori di vario tipo: rottura di piatti, colpi sordi, cigolii di porte e, tra l’altro, soffia nelle orecchie dei malcapitati che dormono.
La leggenda narra che in una casa abitata da una monaca del Terziario Francescano, spesso sparivano gli oggetti, ma stranamente la sua abitante, di tanto in tanto, al loro posto trovava una moneta, cibo, oggetti in dono. Una notte, la monaca vide un esserino: era un mazzamauriello. Questi sembrava un po’ impaurito e supplicò la donna di promettergli di non dire a nessuno della sua presenza. Evidentemente, si disse lei, era lui che faceva spesso rumore, e non era un caso se di tanto in tanto sparivano cose. Nonostante la promessa, un giorno la monaca, pensando che si trattasse di uno spirito demoniaco, rivelò il segreto al fratello che le consigliò di trasferirsi altrove. Mentre la donna avanzava verso la nuova abitazione, incontrò, nei pressi di una cunetta, il mazzamauriello saltellante che trasportava un sacchetto: si stava trasferendo anche lui, con lei. Fu in quel momento che la donna lo scacciò, mandandolo nella vecchia casa. E fu così che cominciarono molti problemi per lei: il più grave fu quello che la vide vittima di una rapina che purtroppo la uccise.
Questa strana creatura ha il volto angelico di fanciullo con abbondanti riccioli d’oro. È alto poco più di un paio di palmi e indossa un cappello rosso dal quale non si separa mai. Nei racconti si narrava dei dispetti che il folletto faceva a coloro che non si erano comportati bene, oppure dei benefici che questi aveva apportato presso le famiglie che lo avevano “ospitato”. Un esserino, dunque, che può anche risultare dispettoso, ma è innocuo, non fa del male, e certamente nei momenti di difficoltà risulta essere molto benefico. Ma innanzitutto porta fortuna. Si racconta, infatti, che quando restava a lungo in una casa, coincideva, molte volte, con periodi di prosperità e fortuna. Pare che egli conoscesse il nascondiglio di antichi tesori e che elargisse preziosi doni a chi lo ospitava nella sua dimora, purché la sua presenza rimanesse segreta. Proprio quello che la monaca della leggenda non aveva fatto.
Altra figura leggendaria delle nostre terre, che incute una certa paura, è quella del lupo mannaro, il licantropo, o lupanaro, una figura quasi sempre di origine soprannaturale o demoniaca, diventata così a seguito di una maledizione, a causa del morso di un altro licantropo, per aver fatto un patto col diavolo. Sembra infatti che sia nato la notte del 24 dicembre, poco prima di Gesù Bambino, e che si volesse evidentemente sostituire a Lui.
Secondo alcuni studi etimologici, il termine Lupo Mannaro deriva dal latino Maniarus, ossia “delle Mànie”, piccole figure di cera che si usavano nei sortilegi e che, con il tempo, avevano assunto una connotazione malvagia. A Benevento, il Lupo Mannaro è dunque un poveretto che ha avuto la sfortuna di nascere durante la notte di Natale, ed è proprio in tale ricorrenza che si agita, ulula e si getta nella fontana della piazza per raffreddare i suoi bollenti spiriti, il tutto davanti a centinaia di persone distratte dalla funzione religiosa di mezzanotte. Per fare in modo che al raggiungimento dell’età di 20 anni questi divenga Lupo Mannaro, occorre che per tre Natali di seguito il padre tracci con la punta di un ferro arroventato una piccola croce sul petto del bambino. Il piccolo avrà certamente delle crisi in cui assumerà fisicamente la fisionomia di un lupo, assalendo chiunque gli capiti a tiro.
Una delle tante leggende racconta che tempo fa vi era una coppia di giovani molto innamorati: si trattava di un fornaio e di una casalinga che decisero di sposarsi. Il fornaio trattava la sua donna come una principessa, ma aveva una sola abitudine: una volta al mese, infatti, chiedeva alla moglie di accettare che, anziché uscire in orario notturno, in cui tradizionalmente panificava, potesse uscire dal tramonto fino al mattino successivo. Alla moglie veniva chiesto di far finta di non udire rumori e di non aprire mai a nessuno, qualora qualcuno avesse bussato a casa, e la mattina avrebbe potuto aprire soltanto nel caso in cui avessero colpito alla porta tre volte: sarebbe stato il suo modo per farsi riconoscere. Un giorno però le comari di paese cominciarono a spettegolare, mettendo in testa alla sposina che, evidentemente, nell’atteggiamento del consorte, dovesse esserci qualcosa di strano: magari l’uomo usciva per tutta la notte per tradirla, o per fare qualcosa di losco. Fu così che la donna, tormentata dai dubbi e dalla gelosia, aspettò che l’occasione si ripresentasse, il mese dopo. Nell’ascoltare i rumori notturni la donna andò ad aprire e il licantropo la sbranò. Il mattino dopo, quando l’uomo tornò in sé, vide che era ricoperto da copiose macchie di sangue. Nel tornare a casa si rese conto di ciò che fosse successo alla moglie, a causa sua, e per tale motivo si suicidò.
Maria la longa o Marialonga o manolonga si può certamente annoverare tra le figure delle janare. Si tratta di una entità molto presente nella zona sannita di Campobasso ma anche nel Cilento.
Era una donna molto lunga, come dice l’etimo stesso, o comunque dotata di artigli, mani e braccia lunghi e snodabili, capaci di acciuffare senza paura i bimbi monelli che si sporgevano dalle ringhiere, magari proprio per guardare dentro a un pozzo. Questa figura nasce come storia, nei contesti rurali, per tenere lontani i bambini da luoghi pericolosi come appunto pozzi e cisterne. Maria è quindi anche personificazione ancestrale della paura del vuoto, dato che cadde in un pozzo e, poiché non aveva trovato pace, si divertiva a tirarvi giù chiunque si affacciasse, specialmente se si trattava di bambini. Una sorta di istituzione nella educazione delle mamme e delle nonne di una volta: “stai attento, altrimenti viene Maria ‘a longa”, era un modo per salvaguardare i bambini dai pericoli che correvano.
Giornalista