Viaggiare, girare, esplorare, guardare, visitare. Ammirare. Amare. Innamorarsi di tetti e cupole, come quelli di questo piccolo ed elegante borgo, un vivo presepe che si erge nel Sannio beneventano. Un borgo d’altri tempi, ancorato a riecheggiamenti medievali. Parlo di Sant’Agata de’ Goti, ai confini tra Sannio e Terra di Lavoro, in Valle Caudina, alle porte della provincia di Caserta, alle falde del Monte Taburno, adagiata su uno sperone di tufo. In prevalenza gli storici concordano sul fatto che nell’attuale territorio di Sant’Agata de’ Goti anticamente sorgesse Saticula, città sannita. E non è un caso che all’interno del territorio santagatese siano state rinvenute alcune necropoli sannite ricche di importanti ritrovamenti, e che il Cratere di Assteas, splendido gioiello archeologico saticulano, sia stato ritrovato da un operaio edile, un certo Cacciapuoti, durante i lavori di scavo per la rete fognaria. Saticula fu anche citato all’interno dell’Eneide, da Virgilio. Nel 343 a.C. il console Aulo Cornelio Cosso stabilì sulla rocca tufacea un primo castrum, accampamento invernale per i soldati veterani. A prima vista quel borgo in alto allo sperone di tufo sembrò subito perfetto per la costruzione del castrum. Infatti, furono proprio i Romani ad accamparsi per primi sulla rocca, inizialmente solo con alcuni dei soldati veterani, e successivamente formando una colonia dell’Impero voluta da Ottaviano Augusto. Alla base della rocca, si appostavano i nemici nel tentativo di espugnare Sant’Agata. Con la riforma dell’esercito romano del IV secolo, voluta da Diocleziano, e con l’arrivo dei Romani d’Oriente, il Castrum si trasformò in Kastron, con una maggiore inaccessibilità dei costoni tufacei che fungevano da basamento al villaggio e con la costruzione, al di sopra di essi, di una cinta muraria perimetrale composta da case accostate l’una all’altra in aderenza, con pochissime aperture estremamente piccole. È proprio lì che risiede parte del suo fascino, così austera ed elegante, adagiata su quel vertiginoso sperone tufaceo che è circondato a destra e a manca da corsi d’acqua. Da lassù si gode di un panorama variopinto e mai monotono: monti e valli allo stesso tempo. E chi la guarda dal basso ne vede la sua particolare policromia, in un serrato ritmo, che mai si stanca, di case e finestre, balconcini, cupole e campanili, cantine e viuzze.
A Sant’Agata de’ Goti ci si può immergere nel vivo del Medioevo, con due strade principali che delimitano l’area cittadina, tra le quali troviamo le case gentilizie con gli orti interni che permettevano alle famiglie di sopravvivere agli anni di assedio. Abitazioni nate nel Tardo Impero, costruite tutte con un muro in comune, in aderenza, per rendere ancora più inaccessibile e inespugnabile la rocca. Sant’Agata fa parte del circuito dei Borghi più belli d’Italia, ed è stata premiata con la bandiera arancione del Touring Club Italiano, proprio grazie alla sua particolarità architettonica. E proprio le sue strutture, i prestigiosi edifici ne fanno una “perla del Sannio” di arte e cultura. Il ponte Vittorio Emanuele supera il verdeggiante vallone del torrente Martorano, ed è proprio da lì che si può godere della vista più suggestiva dello splendido centro storico di questo che è uno dei più rinomati borghi del Sannio. Dall’altra parte del ponte ci si trova di fronte ai maestosi resti del Palazzo Ducale, eredità del castello fondato dai Longobardi e modificato dai Normanni, dai quali fu concepito come struttura difensiva, quale presidio della zona più facilmente accessibile del paese. Nel periodo rinascimentale venne adattato a residenza, Tante sono le chiese di Sant’Agata, solo nel centro storico se ne contano dieci, ricche di affreschi che ne fanno una viva testimonianza della maestosità architettonica sacra, e di quanto il culto cattolico sia vivo, partecipe e sentito. Tra queste il Duomo, o Cattedrale di Santa Maria Assunta, fondato nel 970, ricostruito nel XII secolo e restaurato fra il 1728 e il 1755; il Palazzo Vescovile, nella piazza del Duomo, è un altro monumento degno di nota e di visita. Il suo Salone degli Stemmi, con le effigi di 68 vescovi, è indicativo del ruolo e dell’importanza della locale diocesi. Negli altri ambienti sono esposti cimeli e suppellettili legati alla vita e alla permanenza di Sant’Alfonso Liguori, il vescovo di Sant’Agata dal 1762 al 1775, che con molta dedicione si occupò delle brutture e dei reietti della zona. Se ne occupò con tanta devozione al punto da guadagnarne la beatificazione. Sant’Alfonso, ricordiamo, è stato anche compositore di Quanno nascette Ninno, teologia in musica in lingua napoletana che, in italiano, tutti conosciamo come Tu scendi dalle stelle. E ancora la Chiesa di S. Menna, nel cui interno si trova un tappeto di mosaici cosmateschi, e quella di Sant’Angelo de Manculanis, quella dell’Annunziata, la Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, la Chiesa e il Convento di San Francesco. Tante, ognuna con la sua preziosa particolarità, e tutte le altre.
Nel territorio di Sant’Agata passa l’Acquedotto carolino (patrimonio UNESCO), colosso dell’architettura vanvitelliana, opera dal grande ingegno, che preleva l’acqua alle falde del Monte Taburno per giungere fino alla Reggia di Caserta. Il suo centro storico è elegante, pieno di portici, archi e colonnati, acciottolati e sampietrini che parlano di tempi importanti che furono. Ma possono parlare anche del presente, perché il borgo è un autentico esempio di bellezze, fascino ed eccellenze sannite, a cominciare dalle rinomate mele annurche, da mangiare nella loro semplicità o sotto forma di dolci, liquori, tisane e nelle più diversificate ricette, dolci e salate, fino ad arrivare ai suoi rinomati vini. Non dimentichiamo, infatti, che Sant’Agata de’ Goti è Città del Vino e i suoi vigneti producono eccellenti bottiglie di Falanghina, Aglianico, Greco e Piedirosso. Una curiosità sul suo toponimo: il nome del paese si riferisce innanzitutto alla patrona catanese Sant’Agata martire, molto venerata in tutto lo Stivale. Quanto all’aggiunta di de’ Goti, è consuetudine pensare che ci si riferisca ai vinti della battaglia del Vesuvio del 533 dopo Cristo, ai quali venne concesso di restare nelle loro fortezze come alleati dell’Impero Bizantino. Eppure, è molto probabile, ed è la tesi puiù accreditata, che questa attribuzione sia da riferirsi alla famiglia normanna, Drengot, storpiati in De-Goth, che nel Medioevo ebbe il territorio in feudo dai Longobardi.
In copertina, foto di Kris De Curtis
Giornalista