Immagini dal Sannio: Torrecuso, il borgo dell’Aglianico e delle viole d’oro

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“Là del Taburno a l’ultima pendice
tra infranti torri appare un paesetto
dai Longobardi eretto
sopra un gruppo di sassi ameno ed erto
ed al furor sempre de’ venti aperto……
……un borgo su l’altura levato, in vecchio stile,
col bruno suo maniero e ‘l roseo campanile:
è Torrecuso”.
(Antonio Mellusi)

Ci sono borghi piccoli ma incantevoli. A volte ci capita di etichettarli solo per la loro ricchezza principale, come in questo caso, in cui potremmo citarne principalmente la straordinaria tradizione enologica che possiedono. Città del Vino, tra le rinomate colline sannite che producono ottimo olio e pregiato nettare rosso e bianco, non tutti nominano l’incanto che ci si trova dinanzi agli occhi quando ci si imbatte in luoghi come questi. Torrecuso, piccolo borgo del beneventano, è un gioiello medievale di un incanto sopraffine, affacciato umilmente e a vedetta del Monte Taburno e della Valle del Calore. La sua posizione fa perfettamente comprendere l’origine e la funzione che ha svolto nei secoli passati: Torrecuso, infatti, ha alle sue spalle il monte Pentime, visto come difesa naturale, per la città di Benevento, centro del potente ducato Longobardo, e fu vera torre di guardia, vedetta non solo sulla Valle del Calore attraversata dalla via Latina, ma anche della Valle Vitulanense. Inoltre, le sentinelle che si trovavano a guardia potevano tenere sotto controllo anche l’Alto Tammaro e le colline del Fortore. Sono antiche le sue origini, alcuni lo datano al 216 a.C. circa, mentre altri pensano che fosse già abitato nel 316 a.C., pensando che il nucleo abitato fosse composto da alcuni profughi etruschi della città toscana di Chiusi che lo chiamarono Turris Clusii. Altri studiosi propendono sul fatto che Torrecuso derivi da torus o toronis che significa altura o colle, rispondente alla situazione del paese; da torus poi il diminutivo torricolus da cui Torlicoso e infine Torrecuso. Il centro storico, sviluppatosi in epoca longobarda, è rimasto pressoché intatto: stradine, o rampe, quasi parallele che sboccano in larghi e angoli pittoreschi, tra archi e casette in pietra con scale a giorno. Stradine strette e tortuose che si ritrovano tutte attorno al rinomato Palazzo Cito, dimora dei Cito, feudatari di Torrecuso, sede del primo Museo di Arte contemporanea del vino e della Filiera enogastronomica del Sannio con annessa Scuola del Gusto. di cui un’ala oggi è sede del Municipio. Imponente la costruzione del castrum marchesale, struttura triangolare a tre torri: al suo cospetto si capisce immediatamente che ci si trova in un luogo che si è sviluppato unicamente in funzione della difesa.

Torrecuso è Città del Vino del Sannio beneventano. Qui tutto profuma di vino e di mosto, di bottaie e tini. Un paese di stampo prevalentemente agricolo, che dà certamente la priorità al nettare rosso per eccellenza di queste terre, l’Aglianico, l’eccellenza forse arrivata grazie ai greci, con il nome Hellenico. La denominazione attuale sarebbe nata in seguito alla dominazione degli Aragonesi nel Sud Italia: molto probabile, infatti, che Aglianico derivi dalla pronuncia spagnola di Hellenico. Un vino dalle rinomate e altissime qualità, tanto da essere definito il Barolo del SudUn vino dal colore rosso rubino che trova il suo ambiente naturale in Campania e in Basilicata, trattandosi di un vitigno vulcanico che ha nei terreni argillosi e calcarei tipici delle citate regioni il suo habitat preferito. Un vino che necessita di colline ventilate e inverni non troppo rigidi, e che soffre l’eccessivo caldo e la siccità. Sono tre le tipologie che vantano il marchio DOCG: l’Aglianico del Vulture DOCG, il Taurasi DOCG, e l’Aglianico del Taburno DOCG, protagonista del luogo che vi sto raccontando. Un vino da accompagnare a un buon pasto di carne, bianca ma soprattutto rossa, alla selvaggina e a formaggi saporiti e stagionati. Evento assolutamnete da non perdere, a Torrecuso, è l’attesissimo VinEstate, in passato nato come Sagra del vino Aglianico, che si tiene ogni anno nella prima settimana di settembre e che celebra i meravigliosi e rinomati vini prodotti a Torrecuso. Ovviamente non solo Aglianico: anche Falanghina, e Piedirosso, Coda di Volpe, Fiano, e tanto olio extravergine d’oliva, e frutteti, grano e richiami continui alla terra.

Quando arriva il primo sole di marzo, col suo morbido e delicato tepore, sui muri e sui tetti delle case di Torrecuso, tra le aiuole, nei giardini, nelle siepi, sbocciano i fiori più allegri e spensierati, da considerare come l’emblema di questo paese. Non delle viole qualunque, no! Parlo di una viola dai petali luccicanti, di un giallo che può abbagliare, profumato lievemente, che sembra una sottile lamnina di foglia oro. Si tratta, appunto, della Viola d’oro o Viola di Spagna. Sembra, infatti, che i primi semi di questa pianta siano arrivati a Torrecuso proprio grazie a un soldato spagnolo che era al servizio del Marchese Carlo Andrea Caracciolo. Qualcuno, invece, dice che sia stato lo stesso marchese a portare i semi dalla Spagna, per rendere omaggio al capoluogo del proprio feudo. Un fiore descritto anche da Antonio Mellusi, attraverso alcuni versi nei Ricordi della Patria:

“Allor che aprile ritorna,
destando la fragranza universale,
del mio castel natale
in cima ai muri una corona spunta
che di verde li adorna,
di fiorellin li indora,
e vibra con l’odor si acuta punta
che l’aura intorno e l’anima innamora.
Lá, sopra quelle un dí marzie pareti,
surte al cenno del fiero Adalgiso,
s’aprono mille piante ad un sorriso
di sol che rende i cuori e i campi lieti:
son piante di viole germinate
tra pietra e pietra e in oro colorate.
Chi le piantó? Chi le diffuse, eguali
a l’erbe parietali?…
Da le contrade Ibére
enarra il volgo che quel fior pervenne,
or son due volte cento primavere,
quando guidava le spagnuole antenne
lungo il mar Lusitano ed Olandese
Carlo, di Torrecuso alto Marchese.

Mentr’Ei (decoro e speme
crescendo, come gli avi,
de’ Caracciolo al seme)
faceva veleggiar le regie navi
de la vittoria ai venti, in seno a l’ermo
torreclusin maniero
mandar gli piacque un giovan guerriero
che avverso piombo ne la pugna offese,
onde s’invigorissse il fianco infermo
a l’afflusso vital d’aura cortese.
Nato quel prode sotto il raggio mero
del Castigliano ciel, la guancia scura
aveva e scuro il crin, caldo il pensiero.
Un’odorosa pianta
cingea di vigil cura:
gentil memoria e santa
era quel cespo de’ natii giardini,
ove la madre, oh quante volte, pose
su l’erba i suoi bambini
a far ghirlande di viole e rose.
Del castello a un veron gelosamente
tenea l’infermo milite
il picciol vaso che reliquia gli era
d’ogni cosa diletto; ed al tepente
bacio di primavera
quando la pianticella
di viole e d’odor si fece bella,
egli baciando i fior, sentir credette
anche una volta la materna stretta…”

Foto di copertina tratta da Wikipedia