I mestieri della memoria: ciabattini, schiattamuorti e lavannare

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Nei tempi passati lungo le vie dei nostri paesi, dentro stanzette più o meno illuminate, avremmo trovato vari artigiani intenti alla loro “opra”, avrebbe scritto Leopardi. Del rammaro o ramaro, l’artigiano del rame, ho già scritto, ma c’era, poi, il ciabattino.

Quella del ciabattino era una vera e propria arte che si divideva in varie specializzazioni: il solachianiello che inchiodava le suole (chianiello dal latino planus che significa “piano” nel senso di “pianeggiante”, lo zoccolaro che ricuciva la tela (zoccolo, lat. socculu: il socco era uno dei calzari dei romani), o scarparo che era colui che faceva la scarpa (dal germanico skarpa, “tasca di pelle”) finita.
Un mestiere caduto in disuso era o’mpagliseggia. L’alta diffusione e uso delle sedie di paglia prevedeva un artigiano capace di rimetterne a nuovo la seduta che era la parte, ovviamente, più usata e più esposta a deterioramento.

Un mestiere rappresentativo dei tempi, quando il consumismo era tutto da venire, era il conciapiatti. Quando i piatti o il vasellame in terracotta si rompevano, se le parti erano recuperabili, il conciapiatti con un trapano a coda, forava il piatto rotto e poi vi metteva un punto di sutura con il filo di ferro, riparandolo all’uso.
Per le strade dei paesi, con una particolare bicicletta adattata per l’uso, passava al grido di “donne è arrivato…: il molaforbice che tutti ora chiamano l’arrotino.

Alcune donne si ingegnavano al mestiere del cardalana, separare e pulire la lana dei materassi con l’ausilio di uno strumento chiamato scardasse, che allargava la lana e la rendeva più voluminosa e soffice, un’attività che in ogni famiglia si faceva almeno una volta all’anno per riportare la lana alla sua freschezza quando, sotto il peso dei dormienti, era ormai divenuta un ammasso sporco e scomodo.
Ricordo che da piccolo ho sempre sentito chiamare l’idraulico lo stagnino, e quando c’era da riparare o montare tubi si chiamava lo stagnino. Ma stagnino era anche colui che riparava oggetti d’uso domestico o creava strumenti utili in casa, come caffettiere, imbuti, secchi e contenitori vari.

Un mestiere molto diffuso era ‘a lavannara. La lavandaia era solita girare per le case, raccogliere abiti sporchi e dopo averli lasciati a mollo con soda e cenere nell’acqua calda, dopo un giorno si passava alla culata, ovvero si provvedeva a stendere gli abiti per lasciarli asciugare e per poi lavarli con cenere e sapone ai lavatoi pubblici o sulle pietre lisce lungo fiumi e torrenti.
In ultimo o’ schiattamuorto: il termine, del tutto napoletano, deriverebbe dall’usanza dei becchini di bucherellare i corpi dei defunti, per verificare se fossero davvero morti; secondo alcuni indicava la pratica, in uso fino al Seicento, di comprimere i corpi per farne entrare più di uno nelle bare.


“Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l’altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s’affretta, e s’adopra
Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.”
(Giacomo Leopardi, da Il Sabato nel villaggio)