La scafa e lo scafaiuolo, figura mitica di traghettatore

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Il ponte Maria Cristina di Solopaca, foto dal web

Dopo la seconda guerra mondiale, tornò in uso un “mestiere” di cui s’era andata perdendo memoria a seguito della costruzione nell’Ottocento di diversi e nuovi ponti per l’attraversamento dei fiumi: lo scafaiuolo. I tedeschi per impedire l’avanzata degli Alleati e coprirsi la ritirata avevano fatto saltare diversi ponti: a Guardia Sanframondi il ponte Sorgenza e il ponte Seneta; il ponte Cervillo verso Cerreto Sannita, il ponte Molino Vecchio sulla rotabile per Castelvenere e altri tre ponti rispettivamente sul torrente Ratello, sulla rotabile per Solopaca e su quella per San Lorenzo Maggiore-Solopaca. Nell’ottobre del 1943 fecero saltare l’antico ponte pensile Maria Cristina che attraversava il fiume Calore, realizzato da Luigi Giura e inaugurato nel 1835 da Ferdinando II delle Due Sicilie, che venne intitolato alla sua prima moglie Maria Cristina di Savoia dopo che il ponte sul Garigliano era stato intitolato al Sovrano. A sopperire alla mancanza del ponte tornò lo scafaiuolo, una figura mitica di traghettatore che si tramanda dalla notte dei tempi e che trova riferimenti culturali famosi e nella storia e nella letteratura.

Il mitico Caronte, figlio di Erebo e Notte, che trasportava le anime dei morti da una riva all’altra del fiume Acheronte (ricordato da Virgilio e da Dante), nella religione greca e poi romana viene designato alla funzione di guida delle anime dei trapassati verso il regno dei morti ma solo se questi disponevano di un obolo per pagarsi il viaggio chi non li aveva  era costretto a errare in eterno senza pace tra le nebbie del fiume. Nell’antica Roma vigeva la tradizione di mettere una moneta sotto la lingua del cadavere pe poter pagare il traghettatore d’anime, una tradizione rimasta viva in molte religioni probabilmente riferibile all’antico Egitto, tramandata anche nella versione in cui le monete vengono sistemate sopra gli occhi del defunto e non sotto la lingua, anche a Gesù (come era tradizione presso gli Ebrei) vennero chiuse le palpebre con due monete come dimostrano alcuni studi sulla Sindone che sostengono che anche gli occhi di Cristo fossero stati chiusi da monete avendone rinvenuti dei segni intorno agli occhi visibili sulla immagine impressa nella sacra veste.

Caronte si serviva di uno skáphos- scafo ( corpo vuoto, scavato) nome greco, in  latino schapium. Lo scafaiuolo servendosi di una barca (spesso anche di una zattera) traghettava (dal latino trajectare) cose e persone da una riva all’altra del fiume. Dove l’acqua era meno profonda si usava il lontro, una piccola imbarcazione a pescaggio piatto, in legno di quercia. Lontro deriva dal greco loytron (acquitrinio). Scafa (in realtà è il nome della barca) era il luogo deputato all’attraversamento, era situata dove il fiume era meno impetuoso soprattutto per permetterne l’attraversamento d’inverno quando il suo corso si faceva più irruento. Di diversa natura era il “guado” che era il luogo dove il fiume poteva essere attraversato grazie alla scarsa profondità delle sue acque e che d’estate, con il diminuire della portata d’acqua, diveniva tale da permetterne l’attraversamento a piedi di sasso in sasso.

Nelle nostre zone si ricordano diverse scafe come: la scafa del Volturno nelle vicinanze di Castel Campagnano, la scafa di Paduli sul fiume Tammaro, la scafa di Castelpoto sul fiume Calore, la scafa di Solopaca sul fiume Calore e la scafa di Limatola sul fiume Volturno. Manzoni racconta che anche Renzo, nel XVII capitolo, dei Promessi Sposi si servì di uno scafaiuolo per attraversare l’Adda, mentre era in fuga da Milano: “…è sul ciglio della riva, guarda giù; e, di tra i rami, vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, radendo quella sponda. Scende subito per la più corta, tra i pruni; è sulla riva; dà una voce leggiera leggiera al pescatore; e, con l’intenzione di far come se chiedesse un servizio di poca importanza”.

Curiosità – Una pratica, pericolosa e proibita, vive nei ricordi di molti anziani: era la pesca con la dinamite. I pescatori di frodo preparavano delle vere e proprie “bombe” simili alle superbombe dei botti di Natale che, dopo aver acceso la miccia, lanciavano calcolando il momento esatto dell’esplosione per non farle spegnere a contatto con l’acqua. Al botto si alzava una colonna d’acqua che ricadendo formava vorticose onde ad anelli che si allargavano da una riva all’altra del fiume e subito dopo centinaia di pesci salivano a galla, molti storditi, molti morti. L’esplosione provocava lo scoppio delle vesciche aeree e di altri organi, i pesci galleggiavano in superficie per essere raccolti in reti messe a valle della corrente. Tuttavia, buona parte, dell’ intera quantità andava nella direzione opposta o affondava al fondo come risultato delle vesciche aeree rotte.