Tutte le strade portano… a Napoli

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Il miracolo del sangue di San Gennaro, i presepi di San Gregorio Armeno e non ultimo La mano di Dio di Sorrentino ripropongono il fascino di Napoli. “Città nobile e folle” la definì Eugenio Montale, in visita a Napoli negli anni cinquanta in compagnia dello scrittore Domenico Rea. Sembrerebbe si debba a Walter Mehring, scrittore tedesco, (Berlino 1896 – Zurigo 1981) la famosa frase “Vedi Napoli e poi muori” anche se molti pensano risalga al grand tour e a Goethe, quando la città fu meta dei più grandi scrittori romantici d’Europa, certamente Goethe definì Napoli “Un paradiso abitato da diavoli”.

Dostoewskij scrisse “… sognavo sempre una città come Napoli, in cui c’erano palazzi, chiasso, frastuono, vita… Sì erano forse le poche cose che sognavo?” Anton Cechov, in una lettera alla sua amata, in visita alla città racconta: ”Sono stato dal barbiere, ho veduto lavorare per un’ora intera sforbiciare la barbetta di un giovanotto. Si ha l’impressione di essere non in una bottega di parrucchiere ma nel Vaticano, dove ci sono undicimila stanze. Tagliano i capelli magnificamente”. Tahar Ben Jelloun, scrittore, poeta e saggista marocchino: “Napoli per me somiglia a Barcellona e Tangeri. Sono tre sorelle e tre puttane, cioè tre donne generose che si danno facilmente e dopo lasciano le porcherie per strada.”

Caravaggio, che visse per lungo tempo a Napoli, trovò nei suoi vicoli, dove il sole penetra poco e di rado, il giusto dosaggio di chiaro e scuro per le sue opere, lavorando come in una camera oscura naturale e definì “i pezzenti” i più straordinari e perfetti che avesse mai incontrato. Karl Kraus, poeta e autore satirico austriaco: “Napoli è una città estremamente morale, dove si possono cercare mille ruffiani prima di trovare una puttana”. Benedetto Croce affermava che lo stereotipo del napoletano si era creato durante “La commedia dell’arte” quando a Pulcinella si erano attribuiti vari vizi non certo esecrabili (fannullone, imbroglione, insaziabile), in contrapposizione con le figure “nobili” del Nord (il dotto Balanzone) e anche nel confronto più diretto con il suo alter ego ripulito (Arlecchino) non ne usciva certo bene.

Ferdinand Gregorovius, storico e medievista tedesco famoso, noto per i resoconti dei suoi viaggi in Italia, riporta una pratica che trova analogia anche nell’uso, tutto telesino di un tempo, di consumare l’acqua solfurea con i taralli: “Sotto una specie di volta, presso una fonte sulfurea, da mane a sera donne e fanciulli, invitano a bere l’acqua salubre. Si prende posto su una sedia, si beve un bicchiere di quest’acqua minerale e si mangiano alcune piccole ciambelle. Con pochi soldi la gente modesta vi trova uno spasso; difatti, vi accorrono intiere famiglie e chi non mangia i maccheroni, prende almeno l’acqua sulfurea e le ciambelle… Più di una tenera relazione nasce a Santa Lucia, fra un bicchiere e l’altro d’acqua sulfurea”.

Charles-Louis De Montesquieu: “Il popolo di Napoli, dove tanta gente non ha niente, è più popolo di un altro”. Pasolini:” Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei Napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei Napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi Napoletani alle scenette della televisione della repubblica italiana”.

Napoli resta un mito di difficile interpretazione; sociologi, antropologi, ingegneri, architetti, politici che si sono provati con gli anni a cercare soluzioni restano dell’idea che sia una città ingovernabile. Solo la Chiesa è riuscita a tenere insieme i napoletani, non rinunciando, però, alla carica di paganesimo che pervade la città e che mai potrà essere estirpata, tenendo insieme il culto del sangue con il culto di San Gennaro che anche quest’anno si è “squagliato”.